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Campana, nella lingua  la sua “via”

di  Antonio Stanca

Ci sono autori di letteratura dei quali non si finirebbe mai di parlare o scrivere tante potrebbero essere le argomentazioni da addurre o le direzioni da seguire per spiegarli. Sono quegli artisti che rifuggono dalle comuni definizioni poiché diversi, nuovi riguardo al contesto, quei "casi letterari" che richiedono un esame più attento del solito. Uno di questi, nella nostra storia delle lettere, è costituito dal poeta Dino Campana nato a Marradi, in Toscana, nel 1885. Egli manifesterà, giovanissimo, segni di squilibrio mentale, abbandonerà gli studi universitari, la casa paterna, farà vita errabonda prima tra Francia, Inghilterra, Belgio, Russia, America latina, dove svolgerà i lavori più umili, poi tra Torino e Ginevra, verrà internato più volte in manicomio e qui morirà nel 1932. Sue attività preferite saranno la pittura, la prosa poetica e soprattutto la poesia come dimostra la famosa raccolta di versi "Canti orfici" pubblicata nel 1914. È la sua opera più importante, la più completa tra altre  incompiute o inedite o perdute. Essa fa di Campana l'esempio italiano dei poeti "maledetti" francesi, rivela che egli ha risentito della loro lezione nonché di quella della poesia stilnovistica dantesca tra le nostre passate e carducciana e dannunziana tra le recenti, che è stato influenzato dalle correnti artistiche d'avanguardia del suo tempo specie da quelle pittoriche quali il cubismo e l'espressionismo oltre che dalla lontana figura di Leonardo da Vinci, e soprattutto mostra che ha assorbito e maturato tutti questi elementi così facilmente  da riuscire in breve tempo autonomo e nuovo rispetto ad essi, da pervenire quasi subito a forme e contenuti propri. Le prime consisteranno nella ricerca ossessiva di parole o espressioni che creino un'atmosfera sospesa tra l'immagine e il suono,  il colore e la musica,  la luce e il ritmo; i secondi nei temi del viaggio, del sogno, del destino, del mistero della vita, in quelli, cioè, che uno spirito così inquieto e insofferente avvertiva come propri del  suo istintivo bisogno di evasione.

In Campana incessante fu l'anelito ad andare oltre il contingente, il finito, a cercare l'infinito, l'eterno. Per lui l'attività poetica era l'unica capace di condurre alla rivelazione di altre verità; egli pensò al poeta come allo spirito per eccellenza, all'eletto, all'"angelo caduto". Come uomo e come artista Campana visse e soffrì drammaticamente il contrasto tra realtà e idea, si sentì sempre sul punto di superarlo, di accedere ad una dimensione superiore anche se mai  ritenne giunto il momento. Il vero Campana va colto nelle continue approssimazioni alla verità cercata, nelle parole che stanno per svelare il mistero, il significato ultimo, per trasformarsi in uniche, inalterabili, assolute, per attingere l'inattingibile, per dire l'ineffabile. In tale stato di perenne sospensione dell'anima saranno esse, le parole, l'unica certezza e verso di esse tenderà l'impegno del poeta come se la scoperta di un linguaggio idoneo sarebbe potuta coincidere con la verità perseguita. Infinito e instancabile diverrà  il suo lavoro di creazione linguistica e di questo, in particolare, tratta il  saggio "La via di Campana (Editrice Salentina, Galatina)  dello studioso recanatese Arturo Capodaglio vissuto nel Salento e scomparso anni fa. In esso l'autore evidenzia una conoscenza  ampia e puntuale della produzione critica italiana  relativa a Campana, si confronta continuamente con essa accogliendola o discutendola e soprattutto avvia un procedimento volto a far risaltare l'attimo, il frangente in cui la parola diviene poesia, si trasforma in suono, acquista significato e valore artistico. Si tratta di uno studio meticoloso condotto sulla lingua di Campana, di un'analisi del testo. Ad essere esaminati, nella parte seconda e centrale del lavoro, sono alcuni dei più significativi componimenti compresi in "Canti orfici". Essi vengono, dal Capodaglio, scomposti in parti minime quali uno o due versi, una o due parole, una virgola. Di ognuna si ricostruisce la storia, si risale all'origine senza mai perdere di vista la totalità del testo cui appartiene e il contributo che a questa quella ha apportato.  Si scoprono, così, ascendenze lontane e vicine, precedenti illustri e non, tutto ciò che ha fatto parte della formazione di Campana, la letteratura, la pittura, i movimenti artistici che l'hanno maggiormente attirato senza impedirgli di sentirsi libero rispetto ad essi, di essere artista soltanto a  suo modo. Campana, dice il Capodaglio, non è un nome tra i tanti compresi in una determinata atmosfera culturale e artistica, non è l'autore che scompare nella tendenza o corrente del momento poiché la sua opera è diversa al confronto sia di quanto lo ha formato sia di ciò che avviene intorno a lui. Essa è l'espressione di una dimensione spirituale che era dell'uomo e dell'artista e che solo in una loro lingua, in una loro arte, poteva essere espressa. Lingua ed arte, mezzo e fine sembreranno, s’è detto, identificarsi essendo partecipi della stessa tensione verso una condizione ideale. Per questo era necessario che le parole perdessero quanto era loro appartenuto o avevano significato fino ad allora ed acquistassero altri significati, suggerissero altre immagini, divenissero per soli iniziati al segreto della verità perseguita. Serviva un linguaggio "orfico", capace di guidare verso misteriose rivelazioni.

Sull'interminabile operazione linguistica compiuta da Campana il Capodaglio si sofferma in modo particolare poiché chiarirla significa, per lui, spiegare l'uomo, la sua storia, la sua arte, seguire questa “via" vuol dire avvicinarsi quanto più possibile alla difficile verità del poeta.


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