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Fellini tra sogno e realtà

di Antonio Stanca

Come per altri autori importanti di altri generi d’arte anche per il nostro regista cinematografico Federico Fellini (Rimini 1920- Roma 1993) è successo che ci si sia accorti di lui, della sua opera, del valore di questa, solo dopo la morte. A rendere Fellini quasi sconosciuto in Italia aveva contribuito pure il suo cinema divenuto col tempo di non facile comprensione per molto pubblico. Il regista, tuttavia, non rinunciò alla sua maniera d’esprimersi anche perché per lui rappresentava il risultato di un processo, una maturazione, una conquista.

Partito ed esercitatosi con temi di carattere neorealistico (“Luci del varietà”, “Lo sceicco bianco”, “I vitelloni”), Fellini si era poi impegnato a rappresentare le difficoltà intervenute nei rapporti umani in una società guastata nelle sue componenti morali e sentimentali (“La strada”, “Il Bidone”, “Le notti di Cabiria”, “La dolce vita”), per approdare ad una personalissima concezione di vita e d’arte che nei film della maturità, da “Otto e mezzo” ai più recenti “Amarcord” e “La voce della luna”, avrebbe trovato larga espressione.

Aveva egli assistito alla trasformazione di quella realtà che prima lo aveva interessato ed entusiasmato, l’aveva vista svilupparsi in modo diverso dalle attese del suo spirito e questo si era verificato soprattutto quando dalla provincia si era trasferito nella capitale. Qui era venuto a contatto con quanto disturbava la primaria inclinazione a fare del vero l’oggetto del suo cinema. Roma e la sua vita lo avevano reso accorto di ciò che ormai era stato sottratto all’uomo, alla sua autenticità e l’avevano mosso a cercare quanto perduto. Questo l’avrebbe fatto non nei modi del  contestatore o del nostalgico inquieto e polemico che si ribella alla corruzione dilagante in nome della perduta innocenza bensì nella maniera dell’artista, del poeta che tende ad evadere, a fuggire nel ricordo, nel sogno, nella fantasia senza trascurare la possibilità di un confronto tra passato e presente, tra la primitiva fede nel sentimento, nella passione, nell’amore, nella virtù, nel bene e l’attuale “male di vivere”. Da questa difficile e complicata combinazione tra passione e ragione, istinto e coscienza, anima e corpo, derivano tutte le opere della maturità felliniana. Da qui proviene pure la creazione di  figure particolari, di quei “tipi” volti a rappresentare tanta e tale complessità che spesso lasciano perplesso lo spettatore, strani nei movimenti e nei discorsi, nelle azioni e nei pensieri. Quello che Fellini ha voluto esprimere tramite tali personaggi era un desiderio soffocato, un’ambizione sconfitta, un bisogno di continuare  a credere nell’uomo pur in un ambiente definitosi ormai contrario all’umanità. Un dramma ha sofferto e rappresentato il migliore Fellini, un dramma che lo ha avvicinato agli artisti decadenti impossibilitati a partecipare della vita, della realtà, dell’azione a causa di una spiritualità e sentimentalità che non potevano comunicare con esse. Con il regista assistiamo, però, ad un’operazione nuova e più articolata rispetto a quella della poetica del Decadentismo poiché anche la realtà da questa rifiutata trova accoglienza in lui, nella sua mente e nel suo cinema. Succede così di assistere, soprattutto negli ultimi film, a delle strane “atmosfere” nelle quali si muovono strani “tipi”. Sono “atmosfere” evanescenti, indistinte che riflettono la vaghezza, l’indeterminazione dell’animo del protagonista-autore, la sua interiorità complessa e contraddittoria. Dovendo questa disporsi ad accogliere e contenere  motivi diversi è costretta a rimanere sospesa tra di essi, a non chiarirsi completamente. Spesso non si assiste allo sviluppo ordinato di un avvenimento ma ad una serie d’immagini che ora sembrano avvicinarsi, collegarsi ora staccarsi, che ondeggiano come i contrastanti pensieri e sentimenti dell’attore che le sta vivendo e del regista che le ha concepite. E’ un continuo procedere senza meta, un eterno vagare tra sogno e realtà: da qui il fascino, la magia di Fellini e dei suoi eroi dei quali è difficile dire se uomini o maschere, persone reali o fantasmi, esempi di verità o d’illusione, di vita o di fantasia.

Unico è Fellini in questo, nessuno, prima di lui, era riuscito a pensare e rappresentare una realtà così doppia, una vita così complessa, un’umanità vissuta e sognata insieme. Significa lasciare che il problema continui, che i suoi termini non trovino conciliazione e che la conflittualità divenga un’indicazione, una possibilità, una maniera di essere, di vivere. Non si accetta e nemmeno si respinge, si vuole e si rifiuta. Si approda alla scoperta di un altro modo di essere, di esistere, alla rivelazione di una nuova dimensione umana, si giunge all’arte e quei “tipi”, quelle “atmosfere” divengono emblematici di una più diffusa condizione morale e spirituale, quella dell’uomo moderno diviso tra vecchia e nuova umanità, gli antichi sentimenti e le nuove ragioni, l’infanzia e la maturità, il piacere del ricordo e il dolore della coscienza, il desiderio di abbandono e la necessità dell’impegno. Mancano in Fellini il rigore, l’esattezza di una dottrina, la chiarezza di un preciso procedimento e molta parte della sua opera obbedisce soprattutto all’istinto, all’impulso, all’immaginazione, alla fantasia.

In questi casi risulta difficile esprimere il proprio messaggio poiché anche l’espressione viene vista come un richiamo alla regola per chi vive e pensa in modo irregolare, come un invito alla concretezza, alla razionalità per chi da tutto ciò è alieno per inclinazione e convinzione. Non può che derivare una comunicazione che risente di tanto travaglio e lo riflette. Così è stato per Fellini: la personale, naturale tendenza ad assorbire i contrasti, a smussarne le punte, a farli sfumare e convivere,  lo ha condotto ad un cinema di “atmosfere” più che di azioni e vicende, di “tipi” più che di uomini veri e propri; l’incapacità di decidersi tra antico e nuovo, fanciullo e uomo, sensazione e certezza, memoria e oblio, sogno e realtà, evasione e partecipazione, assenza e presenza, tra tempo, spazio e luogo, glieli ha fatti sentire tutti e nello stesso tempo, lo ha portato a rappresentarli in un modo che, per volerli contenere, doveva di necessità tradursi in un clima dalle tinte e toni “sfumati” ove fosse possibile avvertirli, sentirli più che vederli.


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