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Kundera in difficoltà
(Una prova non riuscita)

di Antonio Stanca

Storico, politico, culturale, psicologico è l’ultimo romanzo del settantaduenne famoso scrittore boemo Milan Kundera, "L’ignoranza" (ed. Adelphi, 184 pagine, 28mila lire). In esso l’autore mentre narra le vicende biografiche e sentimentali dei due personaggi maggiori, Irena e Josef, si sofferma spesso a ricostruire, con toni a volte polemici, le diverse condizioni nelle quali, durante il XX secolo, si sono trovati i paesi dell’Est europeo, in particolare la Cecoslovacchia, e soprattutto il passaggio in essi avvenuto dall’occupazione sovietica alla restaurazione del sistema repubblicano, dal comunismo al capitalismo. Anche la cultura e la letteratura, contemporanee di tali eventi, vengono percorse dal Kundera che, inoltre, nel libro s’impegna a precisare, fissare, tramite acuti e ripetuti ragionamenti, delle regole di condotta o pensiero alle quali ricondurre la vita dei personaggi. Pertanto continua risulta l’alternanza tra storia pubblica e privata, realtà e idea, esterno e interno.

Tra tanto movimento l’esperienza di Irena e Josef rimane centrale: sono due praghesi andati in esilio al momento dell’occupazione russa, lei in Francia, lui in Danimarca. Tra loro c’è stato un rapido e fortuito incontro a Praga prima che lasciassero la città ma poi le loro vie si sono separate per vent’anni durante i quali, pur se lontani, hanno vissuto situazioni molto simili e contratto pensieri e comportamenti che si avvicinano. Entrambi, infatti, non sanno più se la scelta dell’esilio sia da attribuire all’occupazione oppure ai problemi sofferti in famiglia, entrambi, dopo una breve e difficile vita coniugale, sono stati vedovi e soli per moltissimo tempo anche se ora Irena convive con Gustaf, entrambi tornano alla loro città senza capire se da questa siano attratti o la detestino, entrambi, una volta a Praga, s’accorgono di non ricordare luoghi o persone né di essere ricordati, di "ignorare" ed "essere ignorati", d’essere, cioè, soli come prima di partire, come durante l’esilio, come sempre.

Incontratisi sulla via del ritorno, si sono dati appuntamento a Praga e questo si trasforma in un acceso rapporto sessuale con le cui immagini si conclude l’opera e durante il quale ai due sembrerà di aver superato l’eterna loro condizione di solitudine, di aver incontrato l’anima con la quale costruire una vita, di aver finalmente deciso per conto proprio anche se contrario alle convenzioni. Il sesso, dunque, come liberazione da tutto, come promessa di una nuova vita, di quel futuro che è sempre mancato ad anime sempre sole e randage. Ma è un’illusione che dura pochissimo tempo, quello necessario ad Irena per accorgersi di essere stata con un uomo che non l’ha mai chiamata per nome perché non lo ricorda e che non ha alcuna intenzione di rimanere con lei e rinunciare al suo rientro in Danimarca. Com’erano sempre stati i due ritornano soli senza niente cui sentirsi legati, senza un passato né presente o futuro.

Questa è la dimensione dell’esistenza che emerge dal romanzo di Kundera e che lo rende piuttosto fragile nei contenuti anche se apprezzabili risultano come sempre le qualità stilistiche dello scrittore, la lucidità e scorrevolezza del linguaggio, la capacità di analisi e sintesi. Stavolta, però, non tutte le analisi raggiungono quel grado d’obiettività necessario a loro ed all’opera per valere, interessare, coinvolgere sicchè spesso si assiste a dei ragionamenti forzati quali, tra i più ricorrenti, quelli volti a dimostrare il fallimento, la fine della memoria e, quindi, del valore del passato nella vita di un uomo, l’"ignoranza" delle sue esperienze precedenti, della loro funzione nella sua formazione e nella condizione attuale e prossima, nel presente e nel futuro. Ogni misura di tempo viene, infatti, annullata da quest’ultimo Kundera dal momento che i suoi personaggi non sapendo chi sono stati, dove o in chi o in cosa riconoscersi, non sanno neppure chi sono, cosa cercano o vorranno essere o cercheranno. E’ un’umanità priva di consistenza, di spessore materiale e morale, una vita evanescente ed un Kundera che s’affanna a spiegarne e provarne l’esistenza, a farne materia di letteratura senza avvedersi di riuscire paradossale, di negare arbitrariamente e clamorosamente quanto è stato acquisito, in maniera definitiva e indiscutibile, dalla moderna filosofia (Bergson), letteratura (Proust), psicologia (Freud), dalla cultura, cioè, dei nostri tempi circa l’importanza del passato, della sua memoria ed azione per il presente e il futuro dell’individuo e della collettività.

Avrà creduto Kundera di risultare originale, nuovo, proponendo un insolito modo di essere e non calcolando, tra l’altro, di contraddirsi più volte in tale impresa visto che nel libro spesso quel passato respinto dai suoi ragionamenti emerge, improvviso e prepotente pur se inefficace, nella mente dei personaggi? Come spiegare tante sviste? Come condividere un’opera impegnata soprattutto a giustificare i propri contenuti?


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