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Gennaro Lubrano Di Diego
SALVE PROF! ...ovvero la meraviglia dell’educare
Guida, 2006

recensione di Paolo Mazzocchini

Nonostante il titolo ammiccante al linguaggio giovanilistico, il libro di Lubrano Di Diego Salve prof! non è il solito pamphlet tra i molti (più e meno incisivi o brillanti) ultimamente usciti sui mali e i problemi del mondo della scuola: si tratta invece di un’opera che intende (riuscendoci per lo più in maniera convincente e a tratti avvincente) trascendere la dimensione più quotidiana e spesso degradata di quel mondo per muoversi in quella, assai più alta e nobile, dell’educazione della persona  e della relazione, socraticamente (ma non aristocraticamente) intesa, tra maestro e discepolo. Il sottotitolo (la meraviglia dell’educare) rende ben ragione del tenore dell’opera richiamando opportunamente lo stupore e l’incanto che quest’arte, tra le più delicate e gratificanti (e tra le meno riducibili a semplicistiche formule pseudoscientifiche), continua nonostante tutto a produrre in chi la esercita con passione e competenza. Non è un caso che il libro, anziché descrivere quadri di vita scolastica, si dipani piuttosto attraverso una serie variegata di carteggi intercorsi tra l’autore (docente napoletano di storia e filosofia nella scuola superiore) e alcuni suoi allievi anche dopo ed oltre l’esperienza vissuta da entrambi nella scuola: a sottolineare, appunto, che la magica scintilla dell’eros pedagogico crea talora liaisons individuali assai profonde e durature tra il maestro e alunno al di là del contesto scolastico in cui è scoccata. Si leggono così, con un piacere ed un coinvolgimento facilitati dalla misurata densità dello stile, prolungati scambi di e-mail dell’autore con allievi o ex allievi segnati da vicende umane ed intellettuali le più varie, ora difficili e contrastate, ora appassionanti ed edificanti. Da ciascuno di questi carteggi e di questi dialoghi l’autore estrae di volta in volta una precisa ‘morale’, il significato formativo ed esistenziale più profondo. E tuttavia egli tiene sempre fermo, in ogni caso, il principio basilare secondo cui educare non è mai abdicare al dovere di porsi, di fronte all’educando, in una posizione dialettica alternativa, mai corriva ed indulgente: l’educazione, se vuole davvero esser tale, non può derogare alle regole di un gioco delle parti che non ammette scambi e confusioni tra maestro e discepolo. 

Sullo sfondo del libro, ma solo in un secondo piano, tutto il teatrino del didatticume anglofilo-aziendalistico e del pedagogismo lassista di regime che imperversa ormai da decenni nella scuola italiana, ostacolando in tutti i modi, anziché favorirlo, l’autentico lavoro educativo dei maestri, cioè degli insegnanti ancora degni di questo nome. Verso questa soffocante catechesi ministeriale (giustamente smascherata come cattiva coscienza di una scuola che non intende più educere gli allievi, ma renderli soprattutto utenti soddisfatti ed acritici consumatori) l’autore mostra nella sostanza un sacrosanto e viscerale fastidio, benché riesca sempre a contenerlo in una forma (a giudizio di chi scrive) anche troppo rispettosa e diplomatica. Stilos ha intervistato l’autore.

- Come è nata l’idea di questo libro?

Incubavo da tempo la tentazione di parlare di questa professione aldilà delle caricature, degli stilemi, molto spesso dei luoghi comuni, attraverso i quali essa è presentata nella pubblicistica corrente; avevo la necessità di parlare della scuola soprattutto in relazione all’elemento fondamentale per il quale la scuola esiste, cioè lo studente, che mi sembra patire un processo di marginalizzazione sempre più marcato, accompagnato da un illanguidirsi della necessaria funzione di trasmissione culturale assegnata tradizionalmente a questa agenzia formativa.

- Nelle singole vicende educative raccontate si avverte una tensione etica e un rispetto umano che contrastano con l’immagine degradata della scuola trasmessa ultimamente dai media: quelli che descrive sono ‘fiori’ isolati nella melma, oppure casi ampiamente rappresentativi della sua esperienza professionale?

Io, a Napoli, insegno in un Istituto superiore del centro, che è ubicato a ridosso dei Quartieri Spagnoli, con una platea composita e variegata socialmente e culturalmente. Nonostante ciò, le esperienze che descrivo non mi sembrano “fiori” isolati e ho l’impressione che la mia esperienza di insegnante sia condivisa da molti miei colleghi. Le difficoltà ci sono, naturalmente, ma non voglio assegnarmi meriti particolari. Una cosa però va detta; e cioè che l’esperienza educativa è la storia di un incontro umano denso e significativo, per il quale occorre un requisito fondamentale che si chiama interesse verso lo studente; il che non significa condiscendenza nei confronti dei vizi e degenerazioni che il mondo giovanile talvolta ci presenta.

- Leggendo il suo libro si ha l’impressione che il rapporto, profondo e fecondo, tra docente e allievo sia in parte facilitato dalla disciplina umanistica ‘totalizzante’ (la filosofia, nella fattispecie) che lei insegna: pensa che per un docente di matematica o di calcolo aziendale sarebbe altrettanto facile instaurare lo stesso rapporto?

Forse, per me è stato più facile scavare un canale comunicativo con gli studenti grazie al tipo di disciplina che insegno, che mi consente una presa sull’universo umano più variegata. Tuttavia, vedo attorno a me colleghi che insegnano altre discipline e che hanno la capacità di entrare in comunicazione vera ed autentica con gli studenti, favorendone la crescita culturale e umana. La precondizione per tutti è sempre la stessa: un interesse, starei per dire un amore, se il pudore non mi trattenesse, autentico per il processo di crescita di questi nostri figli.

- Spesso lei parla di amore e attenzione per la persona concreta e individuale dell’allievo come chiave per una proficua azione educativa: non pensa che l’amore e la passione del docente per la propria disciplina sia una chiave altrettanto decisiva?

Io non penso che le cose debbano essere poste in contraddizione; anzi l’amore per gli studenti, se non vuole scadere a puro rapporto emotivo, deve necessariamente passare attraverso la mediazione culturale costituita dalla disciplina, che va insegnata nel modo più rigoroso possibile, evitando diluizioni e pericolose semplificazioni. Abbiamo bisogno di formare persone che sappiano che passare dal non sapere al sapere avviene non senza difficoltà e fatica.

- Un’ultima domanda: riuscirà mai la scuola a liberarsi dei falsi miti aziendalistici e mercantilistici che la infestano per rimettere nuovamente al centro i maestri? Oppure questi ultimi saranno sempre più emarginati dal sistema in un malinconico (non vorrei dire patetico) isolamento?

Miti aziendalistici? Io ho l’impressione che nella scuola, per molti versi, si assista alla parodia di tutto ciò, perché poi tutto, in questo baraccone elefantiaco, dalla selezione dei docenti, alla mortificazione delle “eccellenze” e del merito, alla verifica degli standard formativi, è sottratto alla verifica di quella sola variabile che fa di una cellula produttiva un’ azienda: il mercato. Non mi sto augurando che la trasmissione culturale diventi variabile del mercato ma sto segnalando un aspetto comico dell’organizzazione scolastica che assorbe dell’universo aziendalistico le sue perversioni e non le sue eventuali virtuosità. Quanto alla prospettiva, beh temo sempre più la scuola à la page, “modernistica”, schiacciata sull’attualità, anche se conservo la meditata convinzione che tutto questo ciarpame invadente non possa estirpare la necessità della relazione educativa tra studenti e insegnanti, tra persone, cioè, che attraverso la cultura si incontrano, si riconoscono e perciò crescono. E a tal fine c’è bisogno di maestri con l’orgoglio della loro professione.


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