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Come nasce un poeta
(Montale a Genova)

di Antonio Stanca

 

I

Eugenio Montale, "Giorni di libeccio" – Lettere ad Angelo Barile 1920-1957 – (Ed. Archinto): è un breve volume pubblicato di recente che si legge d’un soffio perché costituisce una scoperta continua, inarrestabile. In quest’opera, curata da Domenico Astengo e Giampiero Costa, si scopre il primo Montale, quello dei tempi trascorsi tra Genova e Monterosso, tra il caffè Diana in galleria Mazzini e le lunghe vacanze al mare, tra ozi, letture e scritture su giornali e riviste, tra canto, musica, pittura, prime composizioni in versi e raccolte poetiche, tra la vita, il lavoro e l’arte.

Leggere queste lettere, molte inedite, spedite da Montale all’intellettuale e poeta di Savona Angelo Barile, di poco più avanti di lui negli anni, significa seguire un percorso carico di rivelazioni circa le attitudini, gli interessi, i pensieri, le aspirazioni di un giovane che sarebbe divenuto uno dei maggiori lirici del Novecento non solo italiano e sarebbe stato estremamente riservato riguardo alla sua vita privata. Dall’epistolario risulta che Montale, poco più che ventenne, era attivo, interessato, partecipe di quanto avveniva intorno a lui, dei personaggi, delle opere, delle tendenze della società culturale ed artistica, ligure ed italiana, del momento, disposto a rapporti, scambi, fiducioso in essi. Al Barile scrive pure delle sue recensioni circa autori già noti oppure che andavano emergendo in ambito cittadino o regionale o nazionale. Di alcuni aveva conoscenza diretta, di altri aveva saputo soprattutto tramite le premiazioni. Gli dice delle sue opinioni circa certi programmi culturali che avevano dato vita a riviste, di quanto egli riteneva che valesse e che sarebbe durato nella produzione loro contemporanea, di come vorrebbe la poesia, di cosa si diceva o si pensava o si chiacchierava circa personaggi allora noti, della sua salute disturbata dall’insonnia, dell’aspirazione ad una vita diversa da quella condotta a Genova perché troppo limitativa, periferica per chi voleva sapere, conoscere, vedere, del bisogno di un impiego che risolvesse i suoi problemi economici, delle lunghe e difficili fasi editoriali di "Ossi di seppia" (1925). Si scusa di essere, a volte, ossessivo e non tralascia mai di chiedere all’amico una visita.

Fin qui da Genova o da Monterosso, poi vengono le lettere da Firenze dove Montale si era trasferito nel 1927 per lavorare prima presso la casa editrice Bemporad ed in seguito quale direttore del Gabinetto Vieusseux. Nel 1939 sarebbe comparso "Occasioni" e di questa seconda raccolta di versi Montale dice a Barile nelle lettere fiorentine mentre de "La bufera e altro" e "Farfalla di Dinard", entrambi pubblicati nel 1956, scrive in quelle spedite da Milano che concludono la serie contenuta in "Giorni di libeccio". Da Firenze informa l’amico anche di ciò che gli avviene intorno, delle nuove conoscenze, dell’ambiente di "Solaria", di quello del caffé delle Giubbe Rosse, del perdurare delle sue cattive condizioni di salute, dello stato d’ inquietudine, di scontento ancora sofferto nonostante vivesse nei luoghi a lungo desiderati, della propria attività e di quella di molti altri autori.

II

L’epistolario, pertanto, permette di sapere della cultura e dell’arte dell’intera nostra epoca moderna che si sta avviando verso la contemporanea, di assistere al vario ed instancabile movimento che nei primi decenni del secolo scorso animava i nostri ambienti intellettuali, di veder apparire tanti autori che sarebbero divenuti fondamentali nella storia della letteratura italiana nonché di constatatre come il primo Montale sia stato simile al secondo ed all’ultimo poiché sempre attento agli avvenimenti del tempo, sempre avido di sapere. "…senza una vita ricca di cose viste io non posso dare molto di più di quello che Lei conosce…" scrive ad Angelo Barile il 29 Settembre 1924 da Monterosso. E’ una dichiarazione di poetica fatta a ventotto anni, attuata nel quasi contemporaneo "Ossi di seppia" e perseguita fin nelle ultime opere, "Satura" (1971), "Diario del ’71 e del ‘72", "Quaderno di quattro anni" (1977). Sempre e in ogni modo, fosse con la poesia o con la prosa dei racconti o dei saggi o delle recensioni giornalistiche, egli sarebbe stato presente agli eventi, avrebbe seguito il corso della storia e tratto da esso alimento per la sua scrittura. Da una dimensione individuale, espressa nella prima raccolta, sarebbe passato, nelle seguenti, ad una sociale, storica, dall’uomo che aveva smarrito il suo rapporto con la natura sarebbe giunto all’umanità privata di ogni valore autentico o riferimento sicuro, inalterabile, assoluto, dalle coste della Liguria ridotte ad "ossi di seppia", inaridite, divenute simbolo del "male di vivere" all’Italia oscurata dal fascismo, dalla guerra, alla società guastata dall’industrializzazione, dalla cultura di massa, dalla riduzione del linguaggio a bene di consumo, dalla perdita di ogni valore che non fosse immanente. Dell’ opera poetica di Montale si potrebbe dire come di un diario mai smesso, di una testimonianza continua dei danni che il tempo moderno e contemporaneo apportava ai valori morali, spirituali, culturali, artistici che avevano costituito la civiltà dell’Occidente. Di questa era giunta la fine dal momento che i confini tra bene e male, vero e falso, sui quali si era retta, risultavano ormai annullati e ci si era smarriti in un labirinto senza possibilità d’uscita. Il passato non poteva venire in soccorso poiché i suoi contenuti non erano più validi, non avevano significato. Né poteva aiutare la memoria essendo finite, trascorse le circostanze, "le occasioni" utili per la salvezza dal naufragio abbattutosi sull’umanità. Neanche la donna, recuperata nella sua funzione di donna-angelo, di depositaria d’intimità e, quindi, di fiducia, verità, elevazione, poteva soccorrere nell’ emergenza. Niente poteva servire poiché tutto era drammaticamente finito o era divenuto precario e costituiva una minaccia estesa, illimitata per l’uomo, gli impediva di ritrovarsi con se stesso, di soddisfare i propri bisogni, di conoscere la verità, l’autenticità, ciò che era unico, invariabile e valido per tutti e per sempre. Anche l’arte, la poesia avevano perso la loro posizione privilegiata di espressioni superiori alle altre e ad esse non rimaneva che constatare questa allucinante realtà. Non potevano, non dovevano fuggire la vita, staccarsi dalla storia per perseguire mondi alternativi, illusori, espressi in linguaggi elaborati, "puri" ma dovevano aderire, identificarsi con esse, riconoscere lucidamente quanto succedeva e riportarlo nei modi ad esso più vicini. Pertanto l’artista non era più il vate capace di rivelazioni assolute, di verità inalterabili ma un uomo tra gli uomini e

III

la sua opera da questi, dalle loro cose, dai loro linguaggi doveva derivare. Da tali convinzioni scaturisce la poesia di Montale quale voce dell’uomo comune che si vede insidiato da tanti pericoli e vuole dire di questi, dello smarrimento, della pena che gli sono provenuti, della perdita di ogni aspirazione. Una poesia che traducesse la coscienza acquisita di simile scacco doveva essere quella di Montale, che rinunciasse ad ogni ideale di perfezione e si proponesse di seguire la ragione, di trasformarsi nelle coscienza critica del proprio tempo. Si spiegano così il suo andamento discorsivo-narrativo, i versi di varia misura, rima ed assonanza, l’asprezza fonica, il ritmo scabro, conciso ed ogni altro aspetto che la riconducesse alla misura di una realtà difficile. Di questa sono i luoghi, i tempi, le persone evocate ed elevate a funzione di simbolo di una sofferenza totale, diffusa ad ogni aspetto od elemento dell’esistenza. Poesia metafisica dal momento che pur partendo dalla materia si astrae da essa per poterla tutta comprendere e significare.

Un’estrema, rassegnata difesa dei valori della vita di fronte al dilagare della "melma" può essere considerata l’opera poetica di Montale, un’ultima, vana ricerca di ciò che può aiutare a sopravvivere tra pericoli e minacce ovunque presenti, un esempio di umanesimo tra i più valorosi perché procedente da solo e lontano da ogni consolazione.

In una poesia costantemente illuminata, guidata dalla ragione Montale ha ripreso e rinnovato tanta tradizione letteraria ed artistica, italiana e straniera, classica e moderna, ha risolto uno stato d’animo diffuso al suo tempo ed oggetto di speculazione filosofica (esistenzialismo), ha realizzato le proprie inclinazioni musicali e pittoriche, ha riportato l’arte ad una dimensione umana, ha aderito alla realtà e si è levato su di essa, ha ambito alla semplicità ed è riuscito complesso, difficile, ermetico, ha testimoniato di tutta la storia, passata e presente, dell’uomo giunta ad un confronto decisivo ed in questo sconfitta. Il suo è stato un processo continuo che si è ampliato ed approfondito sempre nella stessa direzione. Di esso le lettere al Barile mostrano l’inizio e confermano come quella di Montale sia stata un’esperienza senza precedenti.


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