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Invito alla lettura per non dimenticare
Intervista a Giuseppe Pirolo autore del libro 1940-45 edito da Edizioni Simone anno 2001

di Giacomo D’Alterio

  1. Il suo libro è una testimonianza fedele e concreta di un periodo storico difficile per il nostro Paese, quali sono state le sue personali motivazioni nel rendere pubblico un periodo così doloroso della sua vita?

Sono sempre stato contrario alla pubblicazione del diario, malgrado le continue sollecitazioni ricevute, perché mi sembrava non solo di speculare sul mio passato ma anche di aprire la porta a qualche inevitabile critica. Poi mi sono soffermato sulla considerazione che gli avvenimenti di quei giorni riguardavano non solo me ma l’intero Paese, e pochi sanno cosa accadde agli oltre 600.000 soldati che si trovavano oltre i confini della Patria e che furono completamente abbandonati rimanendo in balia di se stessi. Sullo sfondo del mio diario c’è anche una pagina della nostra Storia che tutti dovrebbero conoscere. E così, a certe condizioni, ho acconsentito alla pubblicazione.

  1. Quali sono state le pagine del libro più faticose da scrivere e quali quelle più dolorose da rileggere per il suo stato d’animo?

Non ho fatto alcuna fatica a scrivere perché mi sono limitato a corredare gli appunti segnati nei Lager con i particolari sempre vivi nella mia mente. Più di una sono invece le pagine dolorose cominciando dalla lettera di Giovannino Guareschi al figlio Albertino, che aveva all’epoca tre anni e che è sicuramente tra le più toccanti del libro perché in quella lettera un padre cercava di spiegare idealmente al figlio lontano il perché della non adesione alla Repubblica di Salò. Un dilemma che toccò, a chi più a chi meno, tutte le coscienze degli internati. Poi le tragiche uccisioni del capitano Tuhn e del sottotenente Romeo. Gli eventi dolorosi erano però bilanciati nel mio stato d’animo da una solida certezza, quella di ritornare a casa, e questa certezza derivava dalla fede. 

  1. Quale secondo Lei è il messaggio che il suo libro deve dare ai giovani?

E’ difficile dirlo perché oggi i giovani sono poco disposti al sacrificio per una semplice questione di abitudine. Tuttavia ho incontrato recentemente un gruppo di giovani ai quali ho illustrato qualche pagina del mio diario ed ho constatato un notevole interessamento, e soprattutto sensibilità da parte femminile.

La storia è poco conosciuta dai giovani di oggi o, peggio ancora, è conosciuta in modo sbagliato. Non è radicato il concetto di Patria, inteso come complesso di terra, istituzioni, tradizioni, cultura e ideali che nella coscienza del singolo acquista quasi il valore di un mito, come pure si è perduta l’importanza data al Tricolore.

La mia generazione ha dovuto affrontare una guerra che, a mio parere, non si poteva evitare dopo l’ostracismo manifestato dalla Gran Bretagna, nella persona del ministro Robert Anthony Eden, che costrinse Mussolini a gettarsi nelle braccia di Hitler che aveva già occupato quasi tutta l’Europa e che, con l’aiuto degli allora fantasmagorici “V.2” si accingeva a sbarcare in Inghilterra. L’unica alternativa per l’Italia sarebbe stata inevitabilmente l’occupazione nazista.

  1. Il suo libro è stato un vero e proprio diario di viaggio, dal quale lei ha tratto quale insegnamento?, l’esperienza nei Lager, la porta ancora dentro di sé?

Sicuramente, e l’esperienza fatta da soldato e da prigioniero mi ha aiutato ed ancora oggi mi sostiene se devo superare momenti di difficoltà. Ritengo che il periodo trascorso da militare sia non solo necessario ma indispensabile per corredare la formazione di un giovane e sono perciò contrario all’abolizione del servizio militare obbligatorio.

  1. Quali personali considerazioni ha maturato all’indomani della strage dei militari italiani a Nassiriya in Iraq, alla luce soprattutto della sua esperienza personale?

Ho collegato i fatti incresciosi di Nassiriya con alcuni episodi di cui sono stato co-protagonista nell’ultimo conflitto mondiale.

Appartenevo alle truppe di occupazione in Croazia, a Sinj nel 1942, e la guerriglia che quotidianamente provoca vittime in Iraq è molto simile a quella dei partigiani croati nei nostri riguardi, con le dovute proporzioni   all’armamento di allora rispetto a quello di oggi. E’ assolutamente nella tradizione il comportamento dei militari italiani nei rapporti con la popolazione irachena ed oggi, come allora, si tende ad aiutare chi ha bisogno d’aiuto. Di diverso però c’è che la guerriglia di allora è degenerata in terrorismo e speriamo che non si realizzino le intenzione di trasformare l’attuale terrorismo integralista in una guerra di religione. Sarebbe la fine.

  1. La pace dal suo punto di vista è un’utopia o qualcosa di realizzabile?

La pace dipende dall’uomo, dal suo libero arbitrio, dalla volontà, dal senso umano, dal sacrificio e, soprattutto, dalla comprensione dei diritti degli altri da considerare componenti della stessa famiglia umana e non come nemici da combattere.

  1. Cosa vorrebbe dire ai giovani in merito alla sua vita, alle sue esperienze e ai suoi ideali?

I giovani fondamentalmente non hanno alcuna  esperienza di vita vissuta  e per di più spesso si trovano di fronte ad un problema peraltro poco avvertito: si è diluito nel tempo il senso della famiglia. L’esperienza si fa giorno per giorno, passo dopo passo. Anch’io da giovane avevo poca esperienza ed ho vissuto un conflitto generazionale che è un processo naturale ed umano, anche se il contesto ambientale era profondamente diverso. Oggi ci troviamo di fronte un mondo giovanile in continuo conflitto con se stesso e con gli altri. La diffusione della droga è un dramma sociale irrisolto, i  giovani non hanno ancora trovato una strada sicura da seguire, sono senza mete in un mare in tempesta. Bisogna quindi aiutarli in questo mondo in continua trasformazione e cambiamento.

  1. La guerra vista con gli occhi di un combattente prima e di un prigioniero poi, quali sensazioni porta nell’anima  e quale eredità vorrebbe lasciare ai giovani?

Il mio messaggio da tramandare alle generazioni future è quello di fare qualsiasi sacrificio possibile per non finire in un nuovo conflitto mondiale.

La guerra è una cosa terribile, così come il periodo vissuto in prigionia nei Lager, e noi invece siamo sempre in guerra.

L’ultima in Iraq, iniziata, finita e non finita, addossa agli americani pesanti responsabilità specie per quanto riguarda le motivazioni. Centinaia di caduti e varie centinaia di feriti tra i giovani che probabilmente, come me, ritengono che servire la Patria e la Bandiera sia un dovere.

  1. Oggi i giovani hanno perso il senso della realtà, si vive in un mondo virtuale fatto di televisione, computer, cellulare, internet, alla luce della sua vita di reduce dell’ultimo conflitto mondiale cosa Le viene in mente di dire?

Sono sbalordito e spaesato. Non ho comprato fino ad oggi un cellulare, né tantomeno ho voluto che qualcuno me lo regalasse, né ho intenzione in futuro di prenderne uno. Sarà pure una  conquista ma oggi i telefonini dilagano perché così vuole la moda. Internet poi non fa parte del corredo del mio P.C. perché mi spaventa. Campo troppo vasto, immenso, privo di confini e vicino all’impossibile, con il tempo contribuirà a sclerotizzare i cervelli, ed io desidero ancora ragionare con la mia testa, non con quella degli altri.

10.   Ogni utile spettante all’autore è destinato ai bambini vittime di eventi bellici, questa sua caritatevole volontà come la spiega?

E’ stato questo il motivo principale che ha reso possibile la trasformazione del mio diario in libro. Ho visto un po’ dappertutto bambini stremati dalla fame e dalle sofferenze, abbandonati. E la vendita di un libro può anche significare un sorso di latte per qualcuno di essi.


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