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Uno strano documento
(Quando non si chiarisce)

di Antonio Stanca

Una favola, un racconto, un thriller, un diario: è difficile definire questa terza prova narrativa, "La bambina che amava troppo i fiammiferi", dello scrittore canadese Gaétan Soucy (Montréal 1958), docente universitario di filosofia. Tradotta magistralmente dal francese da Francesco Bruno ed appena comparsa in Italia per i tipi della Marcos y Marcos, l’opera contiene le lunghe, sorprendenti rivelazioni di un adolescente che a sedici anni si scopre essere una ragazza, che fino allora è vissuto insieme al fratello, più piccolo, ed al padre vedovo in un’immensa tenuta comprensiva di pineta, fiume, stagno, parco e di un castello dalle interminabili stanze.

Una mattina i fratelli scoprono che il padre si è suicidato e da quel momento, insieme ai preparativi per la sepoltura, inizia pure la narrazione da parte del ragazzo-ragazza, che per scrivere si isola nella legnaia. Egli scrive della sua famiglia, del padre che è stato tiranno con i figli, ha dato loro soltanto ordini, spesso li ha pestati anche per motivi futili e soprattutto li ha tenuti lontani da ogni contatto con l’esterno, segregati nella casa-fortezza fino a farne dei selvaggi e far credere al maggiore di essere un maschio. Circostanze particolari faranno conoscere a questi la sua sessualità e l’evento rafforzerà quelle disposizioni naturali che lo distinguevano dal fratello, ormai istupidito dai ripetuti maltrattamenti paterni, e lo muovevano ad ambire, anche se confusamente, ad una situazione diversa. E’ lui "la bambina che amava troppo i fiammiferi", che supera, per la prima volta, la barriera rappresentata dalla pineta per raggiungere il paese vicino e provvedere alle necessità richieste dal funerale del padre, è lui a consultare dizionari e leggere libri nella biblioteca di casa, citare Saint-Simon, Pascal, Baudelaire, Spinoza, scoprire il padre che in cantina, di notte, s’impegna in macabri riti funerari con gli scheletri dei defunti più prossimi, rievocare, nella sala da ballo, anime del passato remoto e sentirsi loro vicino, soffermarsi sui ritratti della galleria e pensare di partecipare della vita delle dame, dei cavalieri, delle marchese, dei duchi che sono dipinti o dei quali ha letto, decidere di scrivere della vita trascorsa nel castello col fratello ed il padre perché è il solo, tra questi, ad avere coscienza dei limiti di essa, ad aspirare ad un’altra condotta con un figlio allevato in modo diverso rispetto a quello usato da suo padre. Con queste speranze si conclude lo scritto condotto in prima persona dalla "bambina" ed in un linguaggio che, come i suoi pensieri, si muove in continuazione tra realtà e immaginazione, tragedia e commedia, trivialità e aulicità, orrore e conforto, disperazione e fiducia, quotidianità ed eternità riuscendo spesso tortuoso se non ispido.

Tra tante condizioni di spirito la narrante non mostra di propendere per una in particolare e si dispone, fin dall’inizio, ad essere la semplice trascrittrice di quanto visto, fatto, pensato, a produrre il "testamento" della sua famiglia. Da qui il tono costantemente distaccato qualunque sia il tema, il procedimento rigoroso fino a diventare arido, ad eliminare ogni pathos, spegnere ogni emozione come in un documento. Un documento strano poiché manca di alcuni elementi essenziali per essere tale: non indica i tempi né i luoghi geografici degli avvenimenti, non spiega i motivi del suicidio del padre, non identifica gli scheletri che vivono in cantina, non chiarisce la paternità del figlio atteso dalla scrivente. Non completamente riuscita, quindi, si può dire di quest’opera del Soucy perché spesso indeterminata, indefinita, difficilmente riconducibile ad un proposito unico e dispersa tra tanti mai del tutto chiariti.

Soucy è un filosofo quarantacinquenne diventato scrittore da poco ed entrambi i motivi, la giovane età e la scarsa esperienza letteraria, potrebbero servire a spiegare simili sviste oltre alla convinzione, errata ma possibile per un pensatore, che basti trasferire in una narrazione dei temi filosofici, procurare loro una forma che si ritenga adeguata ai tempi oppure si creda moderna soprattutto perché molto irregolare, per ottenere un’opera di letteratura.


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