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La donna della Woolf
(Quando si esagera)

di Antonio Stanca

Nel 1929, nella fase centrale del percorso umano, letterario, artistico di Virginia Woolf (Londra 1882 – Rodmail 1941), si colloca il breve lavoro “Una stanza tutta per sé” recentemente edito nella serie “La biblioteca di Libero” col numero trentanove. L’opera riprende e completa  quanto dall’autrice era stato detto in due conferenze tenute nel 1928 presso due sedi universitarie femminili, la Arts Society di Newnham e la Odtaa di Girton.

Si tratta di un saggio dove in uno stile scorrevole e di facile comprensione la Woolf percorre la storia, soprattutto quella culturale, dai primordi ai suoi giorni evidenziando come la donna abbia avuto in essa un posto sempre ridotto, come non le sia mai stato possibile ottenere “una stanza tutta per sé”, un luogo della casa, cioè, dove potersi dedicare a quell’attività di riflessione, di pensiero richiesta dal concepimento e realizzazione di un’opera letteraria, musicale, figurativa, scenica, scientifica o altra. E non solo “una stanza” ma anche una  rendita annuale (almeno cinquecento sterline) sarebbero occorse ad una donna perché acquistasse quella “libertà intellettuale nel cui seno nascono le grandi opere”. Invece per secoli i tempi, i costumi hanno negato a lei tutto questo  e soltanto adesso, scrive la Woolf, si può dire che lo stia ottenendo come dimostra la sua presenza negli ambiti di lavoro, compreso quello intellettuale.

Un saggio, questo libro, ed  una contestazione, una protesta contro quanto, nella storia, è avvenuto riguardo alla donna anche se lo si deve riconoscere come inevitabile. Lunghe e attente sono le divagazioni che l’opera contiene e che offrono la possibilità di conoscere la posizione della scrittrice e soprattutto quanto, per lei, è collegato con la produzione artistica. Per la Woolf si può pervenire all’arte solo se ci si libera da tutti gli impedimenti che la vita comporta, soltanto se si giunge ad una dimensione sottratta ad ogni contingenza. Si deve vivere solo d’idea se si vuole ottenere un messaggio come l’artistico che supera la quotidianità in nome dell’eternità, il finito in nome dell’infinito, dell’universale. Ogni peso comportato dalla materia deve essere superato ché l’arte è soltanto spirito: far questo, in passato, non si è mai reso possibile per le donne tranne in qualche caso. Esse sono state sempre costrette ad assumersi obblighi, incarichi, mansioni di carattere pratico, materiale, sono state quasi unicamente figlie, mogli, madri, nonne quando non serve o schiave e, perciò, impedite a pensare ad altro. Né per gli uomini è stata sempre possibile quella “libertà intellettuale” che sola conduce all’arte dal momento che soltanto una condizione di vita agiata, sicura, sostiene la Woolf, può garantirla mentre la povertà, la contingenza costringono ad impegni più immediati, più concreti.

Piuttosto limitato, riduttivo risulta il discorso della scrittrice: si vorrebbe riportare a  schemi fissi, unici, inalterabili un fenomeno come l’artistico che, invece, è molto più ampio e più mosso; si vorrebbero stabilire, fissare gli elementi, i modi necessari per pervenire all’arte come se questa fosse un risultato possibile a chiunque segua una determinata linea di condotta. Sbaglia o almeno esagera la Woolf in questo forse perché nel 1929, quando lo ha scritto, l’atmosfera culturale era improntata ad uno spiritualismo così acceso che poteva far alterare i termini di una questione letteraria. La cultura positivista era definitivamente tramontata e pensatori come Freud, Nietzsche, Bergson, avevano rivelato l’esistenza ed evidenziato l’importanza di quanto avviene dietro le apparenze, di quella vita interiore che determina e condiziona l’esteriore. In filosofia, letteratura, arte, i valori dell’idea, dello spirito avevano annullato quelli della realtà , della materia e la Woolf, che parlava di liberazione da ogni peso compreso quello del proprio corpo, va inserita in questo clima così prodigo d’idee e teorie. Inoltre era finita, per lei, la prima fase della produzione, quella realista, ed era pervenuta ad opere come “La signora Dalloway”, “Gita al faro”, “Orlando”, nelle quali le tecniche del “flusso di coscienza”, del “monologo interiore”, l’avevano condotta a vivere e rappresentare i suoi famosi “momenti d’essere”, pensieri, ricordi, sogni, cioè, sottratti allo scorrere del tempo e da riconoscere come infiniti, universali, eterni.

Un’altra, questa, delle cause delle esagerazioni della Woolf?


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