Bambine e bambini, allieve ed allievi, ragazze e ragazzi, studentesse e studenti...

di Umberto Landi

 

L’8 marzo u.s., notoriamente ‘giornata mondiale della donna’ mi è capitato di coordinare un incontro di una dozzina di Dirigenti scolastici della provincia di Salerno, per una prima riflessione sullo Schema di regolamento che definisce gli ambiti e le discipline per la scuola di base e i relativi orari.

Circa la metà dei presenti erano donne e ad alcune di esse avevo preventivamente chiesto se avessero ritenuto opportuno che l’incontro si tenesse proprio in quella giornata che fino a qualche anno fa era nevralgicamente considerata intoccabile.Tutte le interpellate ( non certo beghine medievali ) avevano dichiarato che quella ricorrenza, senza sottovalutare l’attenzione che da alcuni le si riserva, non era affatto di impedimento giacchè il modo migliore per ‘celebrarla’ sembrava loro quello di lavorare seriamente negli impegni istituzionali propri per il buon andamento dei servizi cui sono preposte.

Nel corso dell’incontro, en passant, l’attenzione cadeva anche sulla preoccupazione ormai invalsa, in modo quasi ossessivo, nei documenti ministeriali (soprattutto dopo l’approvazione dello Statuto delle studentesse e degli studenti) di evitare di dire i bambini, i ragazzi, gli studenti e di evidenziare sempre la differenza di genere - ricorrendo alla doppia citazione: le bambine e i bambini, le studentesse e gli studenti ecc. E più di una Dirigente mostrò insofferenza - o comunque non ammirazione - per tale ‘pignoleria’ ministeriale.

Non si tratta di un campione significativo: Ma non credo si tratti di atteggiamenti isolati. Viene perciò da chiedersi : a chi fa piacere il Ministero e ogni altra autorità costituita quando nei documenti ufficiali insiste su questa doppia citazione, quasi come nelle presentazioni classiche Signore e Signori? Ha una rispondenza reale questa premura istituzionale o è un ‘vezzo’ che si potrebbe invece evitare, senza danno per nessuno?

La discussione potrebbe essere lunga e non ho nessun desiderio di tirami addosso ire di ‘femministe’ pronte a richiamarmi l’importanza della ‘differenza di genere’.

Un fatto mi sembra certo : quando i docenti si rivolgono alle loro alunne e ai loro alunni ( è ancora consentito questo termine che sembra volutamente evitato negli ultimi tempi? ) nei contesti scolastici... non dicono bambine e bambini, ragazze e ragazzi ( come se fossero dei presentatori).

Più semplicemente dicono ‘bambini’ se operano nella scuola dell’infanzia e nelle prime classi della scuola di base e ‘ragazzi’ per le classi di età maggiore. E con tale espressione si rivolgono sicuramente - e correttamente secondo me - e senza ombra di preferenza o privilegio per una delle due parti del cielo - a ciascuna e a tutte le persone-alunni che si trovano alla loro presenza, femmine o maschi che siano, senza distinzione di genere.

E siccome l’uso diffuso sembra avere un suo peso nella fenomenologia della lingua, ritorna la domanda: la puntigliosa premura ministeriale a chi piace? da chi è sollecitata? a chi interessa veramente?

A questo punto mi sono ricordato di un altro episodio. Quando, il 7 febbraio 2000, il Ministro De Mauro ha presentato i Documenti dei vari Gruppi di lavoro che avevano elaborato materiali e proposte per la definizione dei ‘curricoli nazionali’, una autorevole componente della Commissione dei 250 intervenne per notare che la ‘cultura di genere’ era poco presente nei Documenti che erano stati predisposti e che la mancanza di alcuni termini emblematici della cultura e della storia al femminile evidenziava la scarsa attenzione che era stata riservata all’apporto specifico delle donne alla elaborazione culturale e al cammino della civiltà.

Sì, nel nostro Paese, c’è da alcuni anni una certa attenzione alla differenza di genere e alla cultura di genere che ha caratterizzato, motivato e accompagnato i processi di emancipazione femminile degli ultimi decenni. C’è anche una normativa generale e specifica in materia.

Nella scuola c’è forse qualcosa di più. Ed è doveroso e giusto che le nuove generazioni si formino in una cultura di parità effettiva ( come è stato richiamato più volte in numerose Circolari ministeriali) e soprattutto prendano consapevolezza delle gravi condizioni di svantaggio, di mortificazione, di emarginazione, di sfruttamento che milioni di donne e bambine ancora soffrono in altre parti del mondo e in qualche sacca arretrata del nostro Paese, come chiunque può osservare seguendo l’informazione quotidiana. Interessante a tal proposito la pubblicazione di studi e testimonianze curata recentemente dalla EMI: Il potere delle escluse, riferito alle donne dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina impegnate in difficili processi di emancipazione.

Ma viene da chiedersi: la sottolineatura pedante, ossessiva, fatta con la doppia citazione ‘ bambine e bambini, allievi ed allieve’ ecc’ è un/il modo per affrontare questi problemi ? O non è forse una sorta di rituale, quasi un vezzo, un modo lezioso, quasi frivolo, per affrontare problemi più gravi o, anzi peggio, per evitarli o rimuoverli ? Coniugare diversità e uguaglianza nella scuola non è affatto facile. Ma non sembra sia questo l’aspetto più problematico. Ci sono molte altre diversità con le quali la scuola pure si misura e non sempre con successo.

Intanto, su un piano più generale, penso che sarebbe più opportuno, e necessario, adottare una terminologia meno approssimativa e generica che consenta di capire con chiarezza - quando nei documenti ufficiali e istituzionali ( anche quelli più recenti) vengono usati i termini sopracitati - a quali ‘soggetti’ ci si riferisce: a quelli della scuola dell’infanzia o a quelli della scuola di base o a quelli della scuola secondaria? o a tutti insieme senza alcuna distinzione?

Fino a qualche anno fa, c’era una sorta di convenzione implicita: bambini erano quelli della ‘materna’ e delle elementari ( almeno I° ciclo); ragazzi si usava per riferirsi agli alunni delle ultime classi delle elementari fino a quelli delle scuole superiori.

Negli ultimi tempi, soprattutto a partire dallo Statuto delle studentesse e degli studenti, questi ultimi termini vengono spesso usati in documenti ufficiali anche quando ci si riferisce ai bambini della scuola dell’infanzia, con una conseguente, inevitabile confusione, che definire babele terminologica sembra poco.

Lungi dal voler suscitare polemiche su una problematica di per sé ‘nevralgica’, mi piacerebbe aprire un confronto su alcuni aspetti del lessico dei più recenti documenti ufficiali, ivi compresi quelli allegati allo ’schema’ di Regolamento recante norme in materia di curricoli, inviato al CNPI per il prescritto ‘parere’. Molto più complicato e difficile, ovviamente, sarebbe il tentativo di fare la stessa cosa con il lessico in uso nelle scuole e nelle riviste scolastiche. I coefficienti di indeterminatezza sono assai più elevati, con conseguenti gravi difficoltà di intendersi e di costruire intese operative tra i docenti innanzitutto nelle situazioni quotidiane di lavoro, anche in dipendenza della ‘ giungla terminologica’.