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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

CONVEGNO SCUOLA ORGANI COLLEGIALI - 10 MARZO 2004 - organizzato dalla Provincia di Roma - tavola rotonda

Livia Barberio Corsetti

Riprendo il discorso degli organi collegiali, in particolare di quelli distrettuali, provinciali e Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Non è un caso che, fra tutti i provvedimenti legislativi adottati nel corso della passata legislatura, quello sugli organi collegiali non abbia avuto attuazione - pur uscito in Gazzetta Ufficiale - e non è un caso che ancora oggi la riforma non riesca a partire. Secondo me anche nella passata legislatura il provvedimento di riforma degli organi collegiali fu sbagliato come impostazione perché si dettero per scontate una serie di cose che non lo erano affatto e non si posero quattro domande fondamentali.

La prima è se servono ancora, nel regime dell’autonomia, organi collegiali partecipativi intendendo quel tipo di partecipazione che fu sollecitata dai decreti delegati. Oggi quel tipo di partecipazione con le percentuali fissate, con il ruolo ingessato delle compenti all’interno degli organi può avere un significato diverso da quando gli organi collegiali furono istituiti per la prima volta proprio per incentivare e sollecitare la partecipazione. Ci sono istanze nuove nella società, ci sono gruppi di interessi che possono anche essere temporanei. Ora bisogna vedere in che modo si può pensare a una partecipazione che non serva soltanto a consolidare certe posizioni di potere o di controllo territoriale, aventi una relazione meramente burocratica. Al termine partecipazione si è recentemente affiancato prepotentemente quello di “integrazione”, per adeguare l’organizzazione dei mezzi in vista del miglior perseguimento degli scopi prefissi.

La seconda domanda è rivolta all’utilità, nel nuovo quadro istituzionale più articolato e complesso, di avere organi sostanzialmente solo consultivi come sono di fatto gli organi collegiali così come definiti dai decreti delegati. Questo si poteva capire in un sistema in cui lo Stato centrale, che tutto decideva, concedeva un potere consultivo alle autonomie, alle scuole, alla società civile su argomenti sui quali poi era lui il decisore. Ma tutto questo è cambiato: oggi lo Stato non è decisore unico e non può limitarsi a concedere un potere consultivo ad enti - dalle scuole, agli enti locali, alle regioni - che hanno ora una loro autonomia e sono titolari di autonomi poteri. Allora bisogna vedere in che modo la configurazione di nuovi organi collegiali può risentire del nuovo assetto delle competenze, laddove ormai Stato, regioni e autonomia locale si collocano dal lato di coloro che possono assumere la decisione finale e tutti gli altri - società civile, mondo del lavoro, imprese, genitori, insegnanti - sono protagonisti del sistema ma subiscono in qualche misura le decisioni assunte dagli altri enti. Con i vecchi consigli provinciali e distrettuali, si avrebbe la partecipazione impropria ad un organo consultivo di organismi - come il Comune - che invece hanno ormai poteri decisori in materia di scuola.

La terza domanda è rivolta alla definizione di chi spetta oggi il potere di assumere decisioni in materia di istruzione e formazione. Gli organi collegiali all’origine furono istituiti solo ed esclusivamente per la funzione dell’istruzione, ma si fa avanti prepotentemente un'altra idea, cioè che fino all’età di 18 anni possa esserci un mix tra istruzione e formazione. Quindi se gli organi collegiali forniscono un supporto alle decisioni di organizzazione del sistema, non possono ignorare che oggi c’è anche la formazione. Questo complica le cose perché le decisioni generali e gli indirizzi in materia di istruzione spettano ancora allo Stato, ma in materia di formazione lo Stato al massimo può attingere ai livelli essenziali delle prestazioni, dato che tutti i poteri sono nella legislazione regionale. Ma hanno più senso organi collegiali solo ed esclusivamente della scuola, che cioè non tengano conto del generale problema istruzione e formazione? Con tutte le interrelazioni che ci sono fra il sistema di istruzione e i sistemi formativi, questa via sembra veramente non percorribile.

La quarta domanda appare nell’eventualità che con l’attuazione all’autonomia didattica e organizzativa, l’esigenza di alcune componenti - come le famiglie e gli studenti e i docenti - potrebbe considerarsi soddisfatta con la partecipazione agli organi collegiali delle istituzioni scolastiche e delle reti di scuole. Qui il problema non è quello di pensare a una estromissione delle famiglie dagli organi più alti come il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, ma è quello di vedere se appare veramente l’autonomia didattica e organizzativa: per esempio, le scuole ricevono ancora fondi finalizzati che non possono usare liberamente per i loro scopi. L’autonomia didattica permette la possibilità di organizzare un 15% di orario libero. La gestione attuale del problema del personale delle scuole contrasta con i principi dell’autonomia: si pensava a un organico funzionale che avrebbe consentito di assolvere a tutte le funzioni, comprese quelle di rete. Le ultime Finanziarie sono intervenute a ragione perché ci sono degli sprechi nel sistema, ma in modo talmente penalizzante che ha creato una situazione di blocco operativo.

Se effettivamente si realizzasse l’autonomia didattica e organizzativa all’interno degli organi collegiali della scuola, le famiglie potrebbero intervenire efficacemente per realizzare un progetto educativo che soddisfi le loro esigenze. Gli studenti e i docenti potrebbero partecipare all’elaborazione del POF. Con le reti di scuola, si potrebbe creare canali di comunicazione condivisa dal territorio alle direzioni regionali della scuola e agli enti locali. Probabilmente gran parte dei problemi a livello di organi collegiali locali potrebbe essere risolta all’interno del sistema autonomia. Barbieri ha fatto prima un esempio di possibili conferenze locali. A me piace più l’idea delle reti in quanto sono già normate all’interno del regolamento dell’autonomia, ma nulla vieta che gli enti locali utilizzino l’ultimo articolo del Decreto Legislativo n. 112 per istituire organi collegiali propri all’interno dei quali chiamare a lavorare le scuole del territorio.

Il discorso degli organi collegiali non può dimenticare un’esigenza derivante dall’eventuale attuazione della decisione della Corte Costituzionale n. 13 del 2004. A questo punto non si tratta più della questione dell’organo collegiale inteso come organo consultivo, ma di un collegamento reale ed effettivo con le esigenze del territorio che può avvenire attraverso un organo collegiale, ma anche attraverso rapporti istituzionali della regione con le reti di scuola, che potrebbero recuperare un momento di incontro tra mondo produttivo, mondo del lavoro, scuola, enti locali e regione.

Emma Colonna

Rappresento il punto di vista dei docenti in un momento in cui l’operazione complessiva è quella di espropriare la scuola della titolarità sulle cose che fa non tanto sul suo territorio - perché rispetto all’autonomia gli spazi, almeno teoricamente, non sono messi in discussione - quanto dal punto di vista culturale e politico. La preoccupazione è veramente grande perché i docenti si sentono messi fortemente sotto accusa, sia per la mancanza di considerazione complessiva che questo Governo dimostra di avere nei loro confronti, sia per il rapporto famiglie/docenti. La scuola viene considerata un supermercato di offerte formative alle famiglie.

Il problema è di chi è la scuola, a chi spetta fare delle scelte e decidere l’impostazione di una scuola. Già nella definizione “organi collegiali” la parola collegiali significa l’impostazione del lavoro di una scuola che riguarda una comunità. Nel momento in cui si ribaltano le proporzioni, tutto viene messo in discussione, anche la libertà di insegnamento che noi sentiamo fortemente in pericolo.

Bisogna ragionare su due livelli, uno scolastico e uno territoriale.

A livello di scuola abbiamo due funzioni: una funzione di indirizzo e una funzione progettuale; la prima espressa dal consiglio di istituto, la seconda espressa dal collegio dei docenti. In entrambi la proposta del Governo pone fortemente in discussione l’organizzazione del lavoro scolastico.

A livello territoriale il pericolo è quello del tipo di rappresentanza e del tipo di carattere consultivo degli organismi. Il modo di elezione e nomina di questi organismi ci mette fortemente in preoccupazione perché, man mano che si sale nell’organismo, l’elezione è sempre più indiretta, cioè si passa dagli organismi che prevedono un’elezione diretta da parte delle componenti agli organismi distrettuali, provinciali, regionali e CNP che vedono forme elettive sempre più indirette e nomine sempre più frequenti, per cui la rappresentatività degli organismi stessi è fortemente condizionata.

Questo meccanismo diventa ancora più pesante con riferimento al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Si ha dunque l’impressione che il CNP - che a noi sta molto a cuore proprio perché è l’organismo nazionale che comunque, nel bene e nel male, è la voce del mondo della scuola rispetto a tutti gli adempimenti e le attività - verrebbe ad essere un organismo prevalentemente nominato e che quindi si teme possa essere il punto di riferimento dell’attività del Ministero piuttosto che esprimere il punto di vista della scuola.

Corrado Mauceri

In numerosi convegni sulla scuola la discussione viene accentrata sul nuovo Titolo V della Costituzione dimenticando però che esiste l’art. 33 della stessa Costituzione che dà una funzione sociale istituzionale all’istruzione come uno degli elementi che creano le condizioni di effettiva uguaglianza per consentire un’effettiva partecipazione alla vita democratica e quindi che dà il senso politico e sociale della funzione istituzionale della scuola.

Io mi sforzo sempre di sottolineare che non è solo un servizio, ma è soprattutto una funzione fondamentale dello Stato.

Diceva Calamandrei in un intervento a un’assemblea degli studenti: “La scuola è un organo costituzionale perché forma il cittadino di domani, è la precondizione dell’esercizio della democrazia”, quindi è strettamente connessa allo Stato. Non può esistere uno stato democratico se non c’è una scuola diffusa, una scuola che sia garanzia di libertà.

E l’art. 33 Cost. sancisce proprio questa funzione dell’istruzione scolastica e afferma alcuni principi fondamentali che dobbiamo tener fermi anche nell’interpretazione del nuovo Titolo V, in primo luogo la libertà di insegnamento: l’istruzione è garanzia di libertà e di crescita di libertà e quindi deve formarsi in modo libero. Di qui la funzione fondamentale della scuola statale che deve garantire non la scuola della maggioranza pro tempore in carica, ma la scuola della repubblica, la scuola di tutti e che quindi deve garantire il pluralismo culturale.

Non ci può essere la scuola di una maggioranza che si fa i suoi contenuti culturali e poi, quando cambia la maggioranza, si fa un’altra scuola con altri contenuti culturali.

L’art. 33 Cost. dice che la repubblica istituisce scuole statali, non governative, scuole statali in cui tutti ci possiamo riconoscere.

Il secondo principio fondamentale riguarda la distinzione netta tra la funzione istituzionale della scuola - che è una funzione di formare anche al lavoro ma soprattutto il cittadino - e la formazione professionale della quale non a caso la Costituzione all’art. 3 non ne parla perché è di competenza esclusiva regionale.

Sono due funzioni diverse che non possono integrarsi o sostituirsi l’una all’altra come si fa nella riforma Moratti, dove addirittura si crea un secondo canale di istruzione che è la formazione professionale con una finalità tutta opposta a quella sancita dalla Costituzione, creando una disuguaglianza dei cittadini; al contrario, la scuola deve tendere a creare uguaglianza tra i cittadini.

Se sono questi i punti fondamentali del nostro assetto costituzionale entro il quale si colloca il Titolo V, l’autonomia scolastica acquista maggiore importanza proprio alla luce del Titolo V. Quando ho letto il ricorso costituzionale intentato dalla Regione Emilia Romagna mi sono preoccupato fortemente perché nel ricorso c’è la tendenza a una concezione localistica che io definisco “parabossiana”, cioè di essere tutrice anche dell’autonomia scolastica. Allora la mia preoccupazione è che, in un quadro normativo ancora in fieri, ci sia una corsa all’accaparramento di funzioni. E l’anello debole di tutto ciò è l’autonomia scolastica che rischia di essere invasa da più parti.

Sono d’accordo che l’autonomia scolastica rende flessibile un sistema scolastico con una sua articolazione che permetta l’interazione con il territorio a tutti i livelli, ma non è soltanto questa la sua funzione. A mio parere l’autonomia scolastica deve innanzi tutto garantire l’autonomia della scuola, cioè deve preservare il pluralismo scolastico da possibili interferenze del potere politico ed economico.

Pertanto oggi più che mai c’è bisogno degli organi collegiali, ma vanno ripensati: c’è l’esigenza di dare piena attuazione al 1 comma dell’art. 21 della legge n. 59:

“L’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi si inserisce nel processo di realizzazione dell’autonomia e della riorganizzazione dell’intero sistema formativo”.

Noi finora abbiamo attuato soltanto un pezzo di tale articolo con il rischio che l’autonomia delle istituzioni scolastiche diventi la peggiore delle autonomie, ossia l’autonomia competitiva, l’autonomia di una scuola che fa la guerra a un’altra scuola.

Dobbiamo invece recuperare l’autonomia come momento di partecipazione del sistema scolastico nel suo complesso all’interno di un sistema che deve essere del tutto autonomo dal potere esecutivo. Dobbiamo valorizzare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, e per garantire l’istituzione scolastica pluralistica dobbiamo rimettere mano al rapporto tra dirigente scolastico e organi collegiali ripristinando la loro funzione di coordinamento. Dobbiamo altresì valorizzare il sistema di rete per creare il potere della scuola perché la scuola possa effettivamente interagire e non essere subalterna agli altri poteri.

Ma dobbiamo anche completare il sistema nazionale di autonomia, il che significa che il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione non può essere un organo tecnico di un Ministro che dà gli indirizzi culturali. Occorre pensare a un governo dell’autonomia, a un sistema scolastico che si autogoverna apertamente con le componenti della società e della cultura. Dobbiamo ripensare a un sistema di organi collegiali che, ad ogni livello, sia il momento del governo dell’autonomia e della garanzia effettiva della libertà di insegnamento. La politica scolastica la fa il Parlamento, ma gli indirizzi culturali, i curricoli, gli standard di valutazione, tutto quello che è la didattica a livello nazionale devono essere attribuiti al mondo della scuola che deve garantire non solo il pluralismo, ma anche l’autonomia dal potere esecutivo. In questo modo si evita che ad ogni nuovo Governo, cambino le indicazioni del ministro di turno in carica.

In questo quadro, organi collegiali non corporativi devono avere un potere decisionale nelle materie che attengono alla didattica.

Se si rafforza il sistema di autonomia della scuola nel suo complesso, la competenza tra le regioni o lo Stato assume la veste di un problema di supporto al sistema scolastico. Mi preoccupa invece il dibattito che ruota intorno alla sentenza della Corte Costituzionale n. 13: avere una scuola toscana, una emiliana e una veneta sarebbe la fine del nostro sistema formativo, la fine della cultura.

Francesco De Sanctis

Sono uno dei pochi Direttori generali regionali che ha fatto anche il Provveditore per tanti anni, quindi ho vissuto tutte le esperienze degli organi collegiali a livello territoriale. Attualmente viviamo una sovrapposizione tra la vecchia e la nuova normativa nel senso che tutti affermano l’estrema importanza degli organi collegiali, ma bisogna chiarire questa mappa dei poteri e delle competenze nella scuola. Un organo rappresentativo è indispensabile per coerenza con il sistema costituzionale che dà grande rilievo all’autonomia delle scuole. Ma il tema è: sono ancora importanti gli organi collegiali? A livello di scuola sicuramente, ma io mi pongo un problema: se il sistema fosse così inadeguato, l’avremmo già cambiato in quanto il Parlamento esercita il proprio ruolo sotto la spinta di interessi della collettività. Ma se questo sistema si è stabilizzato, tentare a tutti i costi di modificarlo potrebbe avere effetti indesiderati. Non sono mai stato un conservatore, tuttavia questa è una delle poche volte in cui comincio a parlare in termini di conservazione.

Si dice di dare maggiore peso ai genitori. Nessuno mette in dubbio l’importanza della rappresentanza dei genitori ma riscontro che, bene o male, questa sinergia c’è. Introdurre altri meccanismi? Ce ne sono già tanti. Alcuni sono stati inseriti per contratto - ci sono le RSU, altri per le nuove esigenze di autonomia - il collegio dei revisori - e credo che a questo punto il dirigente scolastico ne abbia a sufficienza. Modificare la composizione del consiglio di istituto per introdurre altre rappresentanze sindacali non so se sia giusto: potrebbe rischiare di moltiplicare la possibilità che le istanze politiche e sindacali poi di fatto si riversino nella scuola.

La mia proposta è pertanto di tenerci gli organi collegiali così come sono, altrimenti modificarli potrebbe essere molto problematico: scatenerebbe situazioni che difficilmente potremmo considerare. Peraltro, nella mia vita di direttore regionale, ex provveditore, mi confronto con i dirigenti scolastici, ma soprattutto con una realtà che oggi forse è veramente l’organo di governo del sistema: le reti delle scuole. Pertanto iniziamo a ragionare in termini di momenti di rappresentanza delle istituzioni scolastiche associate tra loro.

A livello territoriale, sicuramente il livello nazionale è importantissimo, il livello regionale è altresì fondamentale. Oltretutto qualche esponente di spicco della regione mi ha detto: “Ma perché dovrei nominare rappresentanti in un organo rappresentativo che poi di fatto regola materie che sono mie?” E non ha tutti i torti.

La sentenza della Corte Costituzionale - che io non vedo con la preoccupazione di molti colleghi ma come un normale processo di attribuzioni di competenze previste sia dal Titolo V della Costituzione sia dalla realtà - afferma una logica che dovrebbe essere coerente con l’attribuire l’indirizzo a qualcuno, il controllo a qualcuno e l’azione e la gestione ad altri. Quindi se la dimensione deve essere di carattere regionale, ben venga la diversità.

Il piano di razionalizzazione della rete scolastica era di competenza del provveditore, e ogni volta che io Provveditore dovevo fare questo piano venivo accusato di essere non il tutore della scuola ma un ragioniere che chiudeva, accorpava o riduceva gli organici. Quando poi queste competenze sono passate ad altri, nessuno ha accusato né la Provincia né la Regione di avere ragionato in termini ragionieristici.

Allora probabilmente contemperare interessi politici diversi fa sì che si raggiunga un obiettivo con un confronto molto più aperto e allargato, cosa che faceva anche il provveditore ma che non gli si riconosceva.

Con riguardo agli organi territoriali, nella fase transitoria molti poteri erano stati attribuiti ai CIS (Centri Intermedi di Servizio) e oggi si parla di Consigli Scolastici Territoriali. La mia esperienza è che il Consiglio Scolastico Provinciale non funziona più da anni, nessuno ne sente la mancanza e nessuno lo rimpiange. Quando furono costituiti i distretti, grandi prospettive dovevano coincidere con le aree sanitarie, con le zone di decentramento, ma visto che adesso non coincidono più con nulla, allora forse sarebbe il caso di suggerire alle province e alle regioni di ragionare in termini di dimensionamento di competenze.

Il fatto che molte competenze siano state attribuite alle regioni mette molti in crisi perché hanno il timore di attribuire competenze a chi le possa esercitare in maniera diversa rispetto ai diversi territori. Affinché non si verifichi il timore che ha rappresentato l’avvocato Mauceri credo sia necessaria una cosa: una nostra considerazione all’interno del territorio di questi interessi che devono rappresentare l’unicità all’interno della scuola. Questa è la funzione che devono avere i direttori regionali, altrimenti corriamo il rischio di essere affidati alle regioni in termini probabilmente difficilmente controllabili.

Angela Nava

Rappresento un’associazione di genitori che è nata nel 1976, quindi coetanea e sviluppatasi in modo speculare agli organi collegiali. Nasceva esattamente nel momento in cui si pensava di dover fornire supporto, assistenza, aiuto ai genitori che intraprendevano un percorso allora chiamato “di cittadinanza”.

Trovo molto sensata la domanda che apre questo nostro stare insieme e cioè se hanno ancora senso e se ci sia ancora bisogno degli organi collegiali. La necessità di storicizzare gli organi collegiali è fondamentale perché, da un lato, possiamo dire cosa è accaduto in quasi trent’anni e soprattutto cosa è accaduto alla categoria della partecipazione, diversissima nella sua accezione dal 1974 ad oggi, dall’altro stiamo assistendo a un movimento che viene dal basso per cui è rispetto al genitore istituzionale eletto più forte il movimento.

Chi osserva le dinamiche della vita scolastica di questi anni vedrà che è più vivo il comitato dei genitori piuttosto che l’organo collegiale della scuola, quasi come se, una volta che l’organo collegiale si è istituito, anche il genitore entrasse in un linguaggio rituale che nulla ha più a che fare con la base dei suoi stessi eletti. Lo dico perché, ragionando tutti i giorni con i genitori, mi chiedono non come organizziamo la campagna elettorale ma come si fa un comitato genitori.

Siamo davvero entrati a far parte di una ritualità - quella degli organi collegiali - che ha svuotato completamente di senso? Essendo un’osservatrice in trincea - ma è sotto gli occhi di tutti quello che è accaduto agli organi collegiali, nessuno si dimentica che ormai le elezioni dei genitori nelle scuole superiori sono un’elezione bulgara che chiedono soltanto al candidato di ritirarsi.

Non insisterei tanto nella detrazione degli organi collegiali tout court perché a tutt’oggi sono una straordinaria scuola di democrazia: il genitore esce in qualche modo dal suo individualismo e si sforza di assumere linguaggi, fa un apprendistato di regole che prima gli erano sconosciute e ragiona da cittadino e non da genitore.

So che questo dibattito è inquinato proprio dal fatto che c’è questo familismo che attraversa la legge n. 53 che ci rende poco sereni nel dibattito. Sono altresì convinta che questa alleanza genitori/insegnanti di questi ultimi tempi può non essere un’alleanza di lunga portata ed esaurirsi in una battaglia dell’hic et nunc che non scardina ruoli e competenze, ma che anzi è più che mai avviata a due corporativismi che saranno conflittuali. Sento che la figura del genitore, così prepotentemente introdotto, diventa sempre più il ruolo di colui che indicherà il livello di soddisfazione relativamente al servizio erogato e non farà altro che far alzare le difese “corporative” dei docenti. Credo che questa comunicazione tra genitori e insegnanti rischi, nei tempi più lunghi, di diventare una comunicazione bloccata e sulla difensiva.

Sono molto preoccupata rispetto a un’ipotesi di organi collegiali laddove, in nome della competenza e della durata degli insegnanti piuttosto che i genitori, si dice che la legittimità del governo della scuola deve risiedere in chi per più lungo tempo attraversa il panorama scolastico. Una visione di questo tipo la trovo pericolosissima, visione che parte dagli interessi che si rappresentano, come se in questo paese fosse davvero impossibile fare il salto dall’interesse individuale a quello generale. Sembra cioè che non possa esistere il livello della negoziazione delle parti.

Pur rappresentando la categoria dei genitori, mi chiedo se non sia il caso di ripensare tutto.

Io nasco nel CGD, nasco nel 1976 e nasco con una logica che era quella dei diritti dei numeri e delle parti; sento che qualcosa di nuovo deve entrare nella nostra riflessione, sento che il termine negoziazione è importante e fatico - lo confesso - a fare questo salto. E credo davvero all’autonomia come vicinanza dei governati rispetto ai governanti. Questa era la strada. Oggi invece nelle scuole viviamo con un dirigente che rende questa normativa incongruente; penso alle giunte esecutive: che senso hanno oggi nella conduzione e nel governo della scuola? Penso che vada ridefinito il livello di responsabilità delle parti per condurci a una riflessione complessiva che smobiliti una volta per tutte questa pericolosissima idea dell’individualismo proprietario dei genitori.

Se non induciamo la possibilità di crescita dei genitori che sia quella di potere accedere a dire che il figlio non è un clone che non lo puoi proteggere in eterno, che non ti scegli la scuola su tua misura, che la tua partecipazione deve corrispondere a un orizzonte di diritti condivisi, che questa può essere la scuola dell’interesse generale, io credo che non facciamo un salto in avanti. E mi piacerebbe che la discussione potesse procedere al di là del segno della corporazione.

Vincenzo Carbonelli

Sono uno studente del Dante Alighieri, sono responsabile per quanto riguarda gli organi collegiali della Sinistra giovanile di Roma e provincia ma sono qui come studente, non per riferire un’opinione di partito.

Abbiamo parlato della riforma Moratti e sembra scontato dire che una riforma che interessa gli studenti debba essere decisa insieme agli studenti, o quanto meno gli studenti dovrebbero essere ascoltati. Questa riforma è stata presentata da tre anni durante i quali manifestazioni ce ne sono state molte, non solo da parte della Sinistra e non per manifestare contro il Governo. In questi tre anni ci sono state moltissime manifestazioni e marciavamo insieme agli studenti di Azione Giovani. Questa è una riforma che non piace agli studenti, ai docenti e ai genitori, e io non vedo perché questa riforma debba essere portata avanti con questa politica del muro contro muro, facendo la voce alta e sfuggendo il confronto con quelli che avranno a che fare con questa riforma.

La riforma non solo riguarda le persone ma soprattutto andrà a decidere della classe dirigente del futuro. Questa riforma la ritengo anche classista in quanto già a tredici anni impone una scelta delicatissima: decidere o l’avviamento professionale o la prosecuzione degli studi, con la conseguenza che si creerà un forte divario fra una classe dirigente e una classe che rimarrà accantonata. Gli studenti si sono fatti sentire in questi anni ma il Ministro ha sempre fuggito il confronto. A questo proposito vorrei citare qualcosa che è accaduta la scorsa settimana alla trasmissione televisiva “Ballarò”.

"Ballarò” vede sempre la presenza di studenti e genitori; ebbene, la prima volta che è intervenuta il Ministro Moratti è stato vietato agli studenti di partecipare.

Penso che chi decide la politica di un paese, chi decide il futuro dei cittadini non è qualcuno superiore ai cittadini ma semplicemente uno che li rappresenta: chi è in Parlamento non per questo è più importante di chi fa un altro lavoro ma semplicemente lo rappresenta e quindi non può arrogarsi il diritto di non rendere conto a chi lo ha messo in quella posizione.

Tornando alla puntata di “Ballarò”, noi avevamo fatto richiesta alla RAI di partecipare al programma, ma questa volta il permesso ci è stato negato. Pertanto ci siamo recati davanti alla sede RAI di via Teulada - non era una manifestazione ma volevamo solo dimostrare pacificamente, senza interrompere il flusso stradale - e dopo mezz’ora sono arrivate alcune volanti della Polizia che ci hanno portato in Questura fino alla fine della trasmissione, dopo di che ci hanno rimesso in libertà senza alcuna conseguenza. Questo vuol dire che non c’era alcun estremo perché noi fossimo portati in Questura.

A noi studenti questa riforma non piace e forse chi è davanti al televisore non lo avverte perché constato che non si parla tanto della riforma Moratti. A Roma c’è almeno una manifestazione a settimana contro la riforma ma in televisione non se ne parla mai, a meno che non accada qualche incidente in modo da poter parlare male dei manifestanti.

Questo va a minare non solo il diritto degli studenti di avere una riforma condivisa da loro stessi, ma anche - cosa ben più grave - il diritto di manifestare un dissenso che è stato negato non solo nel caso di via Teulada ma in generale. Quando ci sono le manifestazioni e nessuno ne parla, questo significa che non si vuole far sapere quello che accade, si vuole far pensare che tutto vada bene quando invece così non è.

La consulta provinciale degli studenti rappresenta l’organo di maggiore rilievo in quanto dà la possibilità degli studenti di far sentire la loro voce a livello istituzionale. Della consulta provinciale però non sa niente nessuno e non a caso gli unici componenti della consulta fanno parte di organizzazioni politiche che hanno interesse ad essere rappresentati in un organo istituzionale. Questo avviene perché gli studenti non hanno la consapevolezza dei loro diritti, molti non sanno nemmeno dell’esistenza dello Statuto degli studenti, quando invece dovrebbe essere distribuito nelle classi.

Se la riforma del 1973-74 era una rivoluzione silenziosa, in questi anni si sta attuando una regressione silenziosa: ci stanno togliendo tutti i diritti che avevano conquistato i nostri genitori in anni e anni.

La consulta provinciale oggi pertanto è oggetto di una spartizione fra i partiti: già nel mese di marzo nelle sedi di partito si sta discutendo su chi sarà il presidente, chi saranno i consiglieri. Se poi la consulta provinciale non riesce ad attuare una politica vera che vada in direzione dei bisogni veri dei giovani è normale perché oggi la consulta provinciale è qualcosa che non fa nulla o quasi: ogni tanto riusciamo a fare qualche iniziativa ma siamo imbrigliati nelle logiche di partito. La consulta provinciale oggi non rappresenta gli studenti ma il partito: cioè i partiti riescono, per mezzo dei giovani, a essere rappresentati anche nella consulta provinciale che invece dovrebbe essere qualcosa proprio dei ragazzi.

Per far sì che questa situazione non permanga, è fondamentale che lo Statuto degli studenti non solo venga applicato, ma ancor prima venga reso noto.

L’autonomia, è vero, è un baluardo della libertà in quanto fa sì che le scuole non dipendano da una maggioranza di governo e quindi che ogni sei anni ci siamo degli stravolgimenti all’interno delle scuole ma in modo che le scuole, essendo autonome, possano decidere della propria politica interna in base alle vere esigenze.

Ancor prima dell’autonomia dobbiamo discutere dei fondi perché se c’è autonomia ma mancano i fondi, la scuola ha le pareti che crollano. La riforma toglie 280 milioni alle scuole - ai voglia a parlare di autonomia!.

Leonardo Galli

Parlo a nome dei presidenti dei distretti scolastici presenti.

Ci sono state tre interrogazioni parlamentari da parte dell’on. Publio Fiori, del sen. Falomi e dell’on. Pasetto. Leggo la risposta del Sottosegretario Aprea del 23 febbraio 2004 all’on. Fiori: “Si fa presente che, nelle more, l’emanazione del Decreto Legislativo recante norme di riordino degli organi collegiali territoriali della scuola, sia a livello locale sia a livello nazionale, gli uffici scolastici regionali hanno già intrapreso o sono in procinto di intraprendere le misure organizzative idonee per corrispondere alle peculiari esigenze dell’ambito territoriale di loro pertinenza”.

L’interrogazione era del 23 giugno ma, non avendo ottenuto risposta, l’on: Fiori ha sollecitato la risposta il 27 ottobre e proprio quel giorno, caso strano!, c’è stata la circolare del MIUR ai direttori generali di arrangiarsi. La risposta del Sottosegretario prosegue: “In via generale ed a mero titolo di contributo, in data 27 ottobre 2003 ai medesimi uffici scolastici regionali sono state comunque prospettate alcune possibili linee di intervento per consentire ai distretti scolastici di poter svolgere le incombenze relative ai loro compiti, tenuto conto che le disposizioni contenute nell’art. 35, comma 4, della legge 288 del 2002 - legge finanziaria - non consentono a detti organi di avvalersi di personale della scuola all’uopo utilizzato. In particolare è stato suggerito di valutare la possibilità, sentite le organizzazioni sindacali, di assegnare a detti organi personale docente collocato temporaneamente o permanentemente fuori ruolo per garantire continuità alle iniziative da intraprendere e alla definizione di procedure e adempimenti eventualmente in corso, oppure, se ciò non fosse possibile o non vi fossero attività in corso di definizione, di dare incarico a una istituzione scolastica per curare la sistemazione e la custodia di atti significativi e per fornire all’occorrenza supporto”.

Arrivati a questo punto, mi meraviglio che l’on. Aprea, che è un dirigente scolastico, ignori completamente la norma. I presidenti dei distretti scolastici, ancorché organi elettivi, sono responsabili giuridicamente. Noi abbiamo depositato il nostro codice fiscale, siamo consegnatari del materiale, dobbiamo fare il bilancio, il consuntivo.

Vorrei sapere cosa sta facendo il Direttore generale dottor De Santis perché altrimenti io presidente potrei essere perseguibile per interruzione di pubblico servizio e omissione in atti d’ufficio: infatti, fin quando gli organi non saranno soppressi, l’amministrazione dovrebbe garantire.

Alessandro Paino

Vi sono una serie di contesti che rendono difficile la situazione di chi deve procedere sulla strada dell’attuazione del sistema di istruzione.

Le difficoltà di contesto attengono ai segni obiettivamente ambigui e contrastanti che noi abbiamo all’interno del quadro generale. Noi viviamo in un contesto istituzionale di regionalismo predicato e centralismo praticato. Il dibattito politico-istituzionale è iperlocalista, per contro le decisioni che vengono assunte sono tendenzialmente centraliste.

Sembra che il motto di questa legislazione sia “più Stato e più mercato”, “più decisioni al centro e più cose lasciate all’esterno”.

Poi vi sono un eccesso di innovazione cartolare e un minimo di innovazione praticata: da questo punto di vista la vicenda dell’autonomia scolastica è esemplare. La mia sensazione è che in questi anni sia mancata una politica di implementazione dell’autonomia in una condizione in cui si afferma genericamente che c’è una grande tendenza autonomistica ma, come tutti i processi non alimentati, il processo dell’autonomia si è svuotato.

Penso che la tendenza alla deconcentrazione del sistema non sarà messa in discussione, perché fa parte di tutti i paesi che conoscono la globalizzazione i quali hanno anche elementi di localizzazione per controbilanciarla. E anche lo stesso processo dell’autonomia scolastica ha utilizzato lo spirito di autonomia.

Detto questo, il problema vero di questo Governo è il rapporto fra l’autonomia delle istituzioni scolastiche e gli altri livelli di governo e cioè le altre autonomie.

Il disegno che stava dietro sia la legge 537 del 1993 - la prima che introdusse l’autonomia, sia l’art. 21 della legge 59 del 1997 ha questa idea di fondo: l’autonomia delle istituzioni scolastiche intende realizzare la separazione tra il servizio tecnico dell’istruzione e la gestione non tecnica dell’istruzione che deve implementare questo servizio. Questa autonomia va affermata e protetta nei confronti di tutti i livelli di governo, sia statale, sia regionale e locale, anche se si implementa e vive nel rapporto con gli altri livelli di governo che hanno la responsabilità dell’implementazione del servizio di istruzione come servizio chiamato ad attuare i diritti di cittadinanza.

In questo quadro l’art. 21 della legge 59 rispondeva a questa idea: l’autonomia della scuola era distinta dall’autonomia di regioni, province e comuni ma con questa dialogava.

Con la modifica del Titolo V della Costituzione è cambiato non il ruolo dell’autonomia delle scuola ma il come l’interlocutore di questa autonomia si atteggia che non è più soltanto un centro statale ma un centro che conosce anche un pluralismo istituzionale.

Pur tuttavia questo dinamismo non erode - o non dovrebbe erodere - spazi all’autonomia delle scuole, bensì dovrebbe realizzare questo centro che parla della scuola.

Per realizzare questo processo occorrono due condizioni.

In primo luogo è necessaria una direzione salda e una capacità di indirizzare il sistema di istruzione verso questa nuova realtà; il passaggio da una sistema puramente verticale a un sistema di rete di istruzione va implementato e applicato giorno per giorno, vanno date risorse e va completata anche l’autonomia delle scuole perché sul piano dell’apparato giuridico l’autonomia delle scuole è in cammino e non è ancora compiutamente definita.

In secondo luogo occorre la politica per l’autonomia per la realizzazione dei diritti di cittadinanza. Da questo punto di vista si è fatto un passo indietro perché la scuola è uscita dalla sua autoreferenzialità quando si è posto il problema di riformare all’interno il proprio ordinamento e di relazionarsi con il sistema istituzionale. Oggi la preoccupazione è stata riportata esclusivamente alla questione riguardante gli ordinamenti, ma la questione del ruolo istituzionale è stata trascurata. Le conseguenze sono una scuola alla ricerca del proprio governo.

Gianni Febbroni

Sono della UIL Scuola. Entro nell’ambito delle riflessioni comuni attraverso un ragionamento misto del sindacalista, del docente e di un vecchio presidente del consiglio scolastico provinciale di Rieti. Non ricordo più una data in cui ho convocato il consiglio scolastico provinciale. Questo lo dico con una punta di amarezza. Raccogliendo la “provocazione” del dottor De Santis quando sottolineava che forse nessuno ci rimpiange, rispondo che ritengo ci siano momenti nei quali invece qualcuno ci rimpianga. Faccio riferimento all’elemento terzo ma fondamentale di riferimento della scuola e cioè al territorio: credo che davvero il territorio senta la mancanza di un punto di riferimento di un luogo di discussione collegiale nel quale si affrontino questioni che riguardano il sistema dell’istruzione e della formazione.

Il dottor De Santis avrà vissuto certamente le questioni che riguardavano l’allora razionalizzazione della rete scolastica, l’ha vissuto da provveditore e dunque da protagonista. Oggi non più, oggi la subisce. Allora il provveditore - assieme al consiglio scolastico provinciale che non conta a nulla, che non serve a nulla ma che si occupa di quel territorio - ha deciso il futuro della rete scolastica della sua provincia. Oggi il dottor De Santis non ha più questa competenza neanche come Direttore regionale perché la questione è affidata alla Conferenza provinciale dei sindaci nella quale l’allora provveditore partecipava insieme al presidente del consiglio scolastico provinciale, due uniche figure competenti in un mare magnum di sindaci incompetenti la cui unica competenza era il campanile, non la scuola. Sono convinto che il sistema nel quale è stato determinato il dimensionamento della rete scolastica non ha guardato agli interessi della scuola. Potrei farvi esempi da far accapponare la pelle. In territori dove ci sono 4200 abitanti è stata costituita una scuola così fatta: un istituto verticalizzato e una direzione didattica che attraversa orizzontalmente il territorio e a un certo punto lo interrompe con elementi di discontinuità.

Questo la scuola non lo voleva, e non lo voleva neanche l’allora provveditore, l’ha voluto la politica per interessi non della scuola.

Sottolineato che la RSU non è elemento di democratizzazione della scuola nel senso di organismo collegiale ma elemento di partecipazione democratica alla gestione della scuola in quanto rappresentanza dei lavoratori, sono convinto che la riforma - nel cancellare la funzione dirigenziale provinciale concentrandola nella direzione regionale - impone una forma di partecipazione.

Allora credo che il livello regionale debba essere individuato quale elemento principe della partecipazione nel sistema del governo regionale della scuola.

Ma il sistema delle autonomie scolastiche che si calano in un territorio meglio identificato in quanto a confini, non ha davvero bisogno di una partecipazione? Davvero non deve rispondere a esigenze del sistema produttivo locale o del sistema amministrativo di quel territorio? Io sono convinto di sì.

Reclamiamo un sistema di partecipazione alla vita democratica della scuola nel secondo livello e quindi nel territorio. Dobbiamo individuare un sistema di partecipazione democratica nel livello del territorio: questo credo che risponda anche alle esigenze di quei ragazzi che prima tanto reclamavano la loro presenza nella scuola. Io li ringrazio davvero: abbiamo bisogno di voi, la scuola ha bisogno di voi. Ragazzi, voi spesso dite che subite la scuola, io desidero che voi la partecipiate.

Giancarlo Cerini

Penso che si sia consolidata l’idea che il contesto dell’autonomia scolastica sia un contesto oggi decisivo, strategico, significativo soprattutto se lo sappiamo leggere in chiave istituzionale. Tra l’altro è da tutti condiviso il fatto che l’autonomia non può essere solo una ginnastica istituzionale cioè non è solo l’elogio della flessibilità fine a se stessa, ci deve essere qualche valore di fondo in gioco: penso ad esempio al tema dell’equità e quindi degli obiettivi, delle finalità istituzionali, quelle che leggiamo anche nell’art. 1 della legge n. 30 e nell’art. 1 della legge n. 53.

Pertanto, al di là delle affermazioni di principio, l’idea è verificare fino in fondo se dietro i principi vi sono scelte istituzionali, operative, giuridiche coerenti. Per esempio è preoccupante, parlando di equità, che negli ultimi documenti spesso si trovino termini come “capacità, talenti, attitudini, vocazioni” perché potrebbero lasciare aperta l’idea che si vada verso una sorta di personalizzazione rinunciataria, cioè che venga meno la capacità della scuola di fare una proposta complementare rispetto alle differenze osservate.

Quindi mi piacerebbe trovare nei documenti parole come “opportunità, potenzialità, capacità progettuale”, cioè un’idea di offerta formativa affidabile dal punto di vista tecnico-professionale.

Per questo nel mio intervento di questa mattina accentuavo la responsabilità dei soggetti professionali della scuola dell’autonomia. Non ci appassioniamo nel dibattito sulla composizione degli organi collegiali, penso che ci dovremmo attestare su un lodo onorevole della pariteticità delle presenze delle diverse componenti con una presidenza di garanzia per i genitori. Ma soprattutto, ripensando agli organi collegiali, dovremmo approfondire le funzioni che stamattina ricordavo e cioè:

  • l’approvazione del POF come ambiente del curricolo in un contesto;
  • l’elaborazione come responsabilità del curricolo della scuola in capo agli insegnanti,
  • il collegio dei docenti non solo come organismo rituale ma come un’articolazione intermedia, come una sorta di nervatura intelligente dell’autonomia;

La partecipazione è l’elemento di forza non tanto nell’intelaiatura degli organismi quanto nelle procedure di ascolto, di concertazione, di rendicontazione, cioè una sorta di modello processuale trasparente dei processi decisionali, fino ad arrivare alla rilettura dei compiti gestionali del dirigente scolastico con riferimento alla normativa degli anni Novanta, ma con un’esigenza di tenere aperta l’idea che il dirigente scolastico non è solo il terminale dell’amministrazione, ma anche il portavoce della dimensione partecipativa del contesto.

Se è questo il futuro dell’autonomia - cioè una trasparenza partecipata dei processi decisionali, ci dovremmo chiedere cosa ci deve essere a fianco della scuola dell’autonomia. Ci sono parecchie candidature: l’amministrazione, gli enti locali, la filiera tecnica, le stesse scuole con il sistema delle reti. Collegare lo sviluppo dell’autonomia delle scuole con lo sviluppo del contesto istituzionale diventa estremamente importante. Ci sono per esempio le idee dei tavoli o delle concertazioni, in molti territori vi sono esperienze interessanti di costruzione di sedi di concertazione.

Penso anche che dovremmo riflettere su come sta cambiando l’amministrazione scolastica a seguito del Decreto n. 319 che sostituisce il Decreto n. 347 e che il processo indicato nel Decreto n. 319 si debba confrontare con la sentenza n. 13 della Corte Costituzionale.

Il Consigliere Paino propendeva per un modello inglese, cioè non più una doppia filiera - Stato ed enti locali - nel territorio, ma la sola filiera degli enti locali. Questo mi fa porre la domanda sul chi potrebbe garantire nel territorio le norme generali, i principi fondamentali, i livelli essenziali.

Un altro argomento riguarda la filiera tecnica di sostegno alle scuole. Una volta tramontata l’ipotesi dei CIS, non c’è nulla in sostituzione di essi. Spesso facciamo l’elogio delle reti ma anche questa è un’idea evanescente. In Emilia Romagna abbiamo fatto un censimento molto interessante dal quale è emerso che su 560 scuole abbiamo 300 reti. Ma chi sostiene le reti? Chi aiuta le reti? Non abbiamo neanche un’anagrafe delle reti. E soprattutto queste reti danno vita anche a delle strutture permanenti - come è detto nel regolamento, laboratori territoriali per la formazione, la ricerca e la documentazione e la valutazione? Forse non è più il tempo di grandi ingegnerie concertative, di grandi tavoli ma c’è bisogno di strutture di supporto.

La legge regionale dell’Emilia Romagna parla di centri servizi di consulenze. Immagino che un processo interno di consolidamento dell’autonomia - nel senso di condivisione di responsabilità, ma allo stesso tempo anche di distinzione della stessa responsabilità - deve avvenire non solo all’interno della scuola ma anche sul territorio tra i soggetti che oggi si candidano a governare insieme.

Daniela Monteforte

Ringrazio per aver partecipato a questa lunga iniziativa.

Alcune osservazioni rispetto a questa giornata. Abbiamo ascoltato tutte le voci che era necessario ascoltare in un ragionamento per quello che riguarda il futuro della nostra scuola e gli organi collegiali.

La domanda che era alla base di questa iniziativa ha una risposta positiva: gli organi collegiali servono ancora. Ciò che serve anche è non guardare al passato ma guardare a un presente che è più complesso e difficile rispetto a quello del 1974, c’è la necessità di costruire un equilibrio di segno diverso rispetto allo scenario istituzionale del Titolo V.

Ricordo in particolare l’intervento del Consigliere Alessandro Paino che ci ha dato un quadro molto interessante sul significato della sentenza della Corte Costituzionale.

Dicevo che la domanda ha una risposta positiva pur con diverse accentuazioni, articolazioni e punti di vista. Sicuramente rimane il dato che il tema dell’autonomia scolastica è uno dei temi fondanti e rispetto alla quale non si può prescindere non soltanto perché è nella costituzione, ma perché qualsiasi ragionamento deve partire proprio dall’autonomia.

Un altro ragionamento deve partire dalla necessità di un sistema di rappresentanza che sia pluralista e che guardi ad un rapporto diverso con le comunità locali: penso che da questo punto di vista il percorso assolutamente innovativo che noi abbiamo avviato di un confronto con le rappresentanze dei dirigenti scolastici nei territori, l’esigenza molto forte che abbiamo avvertito di un rapporto sinergico e sistematico tra il sistema dell’autonomia scolastica e il sistema delle autonomie locali costituiscano dei punti imprescindibili.

Se non vogliamo un’autonomia che sia autoreferenzialità, se non vogliamo un federalismo che sia in realtà centralismo e gerarchizzazione, se non vogliamo una scuola in cui ci sia un pluralismo con i bavagli, dobbiamo fare in modo che questa pluralità di voci, queste diverse sensibilità, queste diverse responsabilità che ciascuno di noi ha, possano trovare un momento di sintesi che non può essere deciso centralmente, ma deve essere deciso attraverso ulteriori approfondimenti e riflessioni. Questa discussione così ricca di riflessioni è patrimonio per i presenti e ci impegniamo affinché lo diventi anche per gli altri.

È aperta la discussione sulla legge n. 53 e sulle nuove modalità attraverso le quali si partecipi democraticamente con responsabilità ciascuno per il proprio ruolo e per le proprie competenze. Il nostro impegno è quello di replicare queste riflessioni anche in altri territori della nostra provincia.


Daniela Monteforte

Si tratta di costruire un sistema di rappresentanze di equilibrio di poteri che tenga conto di tre fattori: l’autonomia scolastica, il diverso ruolo e competenze degli enti locali. È questo il senso di questa iniziativa. Una riflessione e una proposta affinché questa Provincia, insieme a chi fa la scuola, possa diventare elemento di riferimento per contribuire con la sua importante e forte esperienza a un ridisegno dell’assetto degli organi collegiali che sia il frutto di un’esperienza accompagnata dalla volontà di perseguire la realizzazione di una scuola sempre più plurale, con un saldo rapporto con il territorio e con gli enti locali. La volontà di affrontare questo equilibrio delicato, definisce l’impegno che ci siamo dati per garantire la piena partecipazione democratica di tutti nelle istituzioni come l’ente locale e la scuola.

Do il benvenuto ai presenti, ringrazio Edoardo Del Vecchio, Presidente della VI Commissione consiliare e la Commissione IV della Provincia di Roma. Abbiamo promosso questo incontro proponendovi un interrogativo forse troppo retorico: partecipazione, programmazione, democrazia, autonomie scolastiche: servono ancora gli organi collegiali?

Per coloro che sono impegnati a rinnovare il funzionamento della macchina amministrativa e al tempo stesso a realizzare una politica innovativa più adeguata ai nuovi compiti istituzionali, è del tutto evidente e indispensabile favorire la partecipazione dei cittadini anche come destinatari dei servizi e delle politiche educative e culturali, da noi proposte e realizzate nel territorio. Ma è altrettanto evidente che se chi governa ha invece una concezione aziendale del proprio ruolo, quello che può interessare in modo esclusivo è la qualità, l’efficienza e la bontà del risultato della sua azione che sono però unicamente valutate sulla base di altri criteri, cioè del giudizio degli utenti clienti e dell’eventuale possibilità di conferma delle loro scelte sul mercato.

Non è questa la filosofia che ci ispira.

Se oggi il sistema degli organi collegiali ai vari livelli - quello territoriale e di istituto - appare in uno stato di completo abbandono - come documenteremo nel corso di questo nostro convegno, ciò non avviene - a nostro avviso - in maniera casuale, perché chi ha oggi la responsabilità del governo nazionale, si ispira alla seconda delle due filosofie che ho prima enunciato. Le omissioni e le incertezze che si sono verificate sul terreno della riforma di tale ordinamento sono talmente macroscopiche che a volte ci sembra veramente di essere governati da personaggi usciti da qualche bagaglino televisivo; ci sforziamo di non crederlo, pensiamo di avere allucinazioni, di aver capito male, ma alla fine dobbiamo in realtà constatare che i fatti che stiamo verificando superano le allucinazioni.

L’ultima vicenda assolutamente incredibile di cui si sono resi protagonisti i responsabili dell’istruzione nel nostro paese riguarda l’elemento che è ora oggetto della nostra riflessione e discussione: la morte dei vecchi e la nascita dei nuovi organi collegiali territoriali, Consiglio Nazionale incluso. Il fatto incredibile è che dal 31 dicembre 2002 l’amministrazione scolastica non ha più potuto disporre di organi collegiali territoriali, del Consiglio Nazionale - a cui pure afferiscono competenze amministrative di tutto riguardo, e cioè questi organismi giuridicamente non esistono più pur continuando nelle varie sedi a riunirsi, a emettere delibere e carte che sono però ormai prive di qualsiasi significato. Nessuno si occupa di tale circostanza, anzi, per quanto riguarda in particolare i distretti scolastici - che pure hanno avuto un ruolo fondamentale, la questione della loro sopravvivenza o meno è nei fatti assegnata alla singola valutazione delle direzioni regionali.

Gli organi collegiali di istituto. Nel quadro delle controriforme della scuola che sono state proposte dall’attuale maggioranza governativa - e per fortuna non ancora realizzate del tutto, di particolare rilievo ci sembra quella che assai significativamente si richiama al governo delle istituzioni scolastiche omettendo, peraltro, qualsiasi riferimento alla partecipazione e alla collegialità. Questa giace nell’Aula dopo una prima discussione generale dal 4 marzo 2002 e ancora non si ha notizia.

In effetti, al di là di marginali e confuse operazioni di cosmesi, il progetto di legge approvato dalla VII Commissione riporta la scuola italiana a prima del 1974, cioè a prima dei decreti delegati. Tutto ciò comporterebbe l’eliminazione in un colpo solo di tutta l’esperienza, sicuramente complessa e contraddittoria, della partecipazione democratica dei genitori, degli studenti, degli operatori scolastici al governo della scuola. Si fa in qualche modo piazza pulita di un movimento che pure ha contribuito fortemente alla democratizzazione della scuola, fondata su due principi fondamentali: la partecipazione e la responsabilità, o meglio, la corresponsabilità del governo della cosa pubblica. Con questo progetto, invece, emergono forme autoritarie e mai sperimentate in precedenza; una gestione burocratica e verticistica del processo educativo insieme ad alcune figure anche ambigue come ad esempio quella del garante dell’utenza che ci fa pensare a una scuola diversa rispetto al luogo di formazione dei cittadini e di crescita democratica dei ragazzi - e quindi del paese. Appare il modello di un’azienda - scuola con una concezione che mortifica le sue componenti, presupponendo nei fatti una concezione centralistica e accentratrice.

Gli organi collegiali territoriali. Il 27 novembre 2003 il Consiglio dei Ministri aveva approvato lo schema di decreto legislativo delegato che poi non è stato emanato a causa del parere negativo espresso nella Conferenza Stato/Regioni. Noi eravamo davanti a un sistema di nomine a cascata: gli eletti da parte delle componenti scolastiche nei consigli di istituto entravano a far parte dei consigli scolastici locali, i presidenti e i vicepresidenti di questi consigli entravano a far parte dei consigli scolastici regionali, i presidenti e vicepresidenti dei consigli scolastici regionali entravano a loro volta a far parte del consiglio nazionale dell’istruzione e della formazione composto da 55 membri, 10 nominati dal Ministero: insomma, un sistema elettorale di fatto di cooptazione senza prevedere più il sistema della rappresentanza delle diverse componenti.

Ora, su questo atto vi è stata una levata di scudi da parte di tutti e io voglio ricordare i commenti pesanti da parte di Confindustria ne “Il Sole 24 Ore”, ma anche da parte di tutte le componenti organizzate del mondo della scuola che hanno bollato questo provvedimento che nei fatti non avrebbe rappresentato minimamente le componenti della scuola e in particolare i docenti - e non soltanto, ma avrebbe definito un sistema assolutamente inutile e autoreferenziale.

In questa situazione, al di là di ogni altra valutazione di merito che lascio al dibattito di oggi, è indubbio che la gestione di un sistema complesso come quello dell’istruzione abbia la necessità di dotarsi di strumentazione e di sedi che siano costruttive, ma anche decisionali e fortemente rappresentative. Quindi delle strutture e dei luoghi che consentano il governo delle istituzioni scolastiche e anche e soprattutto in rapporto con le modifiche che sono intervenute relativamente alla riconosciuta potestà legislativa delle Regioni, all’autonomia delle istituzioni scolastiche, alle competenze statali.

Pur nelle more del nuovo ordinamento vi è sicuramente la necessità di individuare delle forme strutturate e informali - sembra una contraddizione ma non lo è - che possano consentire agli enti locali di assolvere a quei compiti di coordinamento, pianificazione, programmazione territoriale nel sistema dell’istruzione, dell’offerta formativa, ma anche dei servizi di supporto che noi vogliamo e dobbiamo dare al sistema dell’istruzione. È per questo che occorre l’attuazione di un rapporto sinergico da parte degli enti locali con le istituzioni scolastiche e tra queste e il sistema delle autonomie locali. È questo il motivo per cui abbiamo avviato un percorso realizzando già tre incontri per le conferenze territoriali aventi lo scopo di favorire il coinvolgimento dei dirigenti scolastici attraverso la costituzione di forme di rappresentanza delle scuole che siano articolate in relazione a una ripartizione funzionale del territorio provinciale e in rapporto con il sistema delle comunità locali e delle autonomie locali. Tutto ciò è finalizzato anche alla costituzione di un organismo di rappresentanza provinciale delle istituzioni scolastiche autonome. Questo d’intesa con la direzione regionale.

Abbiamo, di conseguenza, individuato anche modelli informali ma strutturati, ad esempio: il rapporto con la consulta provinciale degli studenti e il progetto dello sportello informatico con gli studenti con gli sms; forme assolutamente innovative che segnalano la necessità per questo ente locale e per questo Assessorato, di costruire una relazione pienamente concreta con coloro che sono le forze vere e vive del mondo della scuola.

Un altro punto attiene alla sentenza della Corte Costituzionale del 13 gennaio 2004 che ha accolto la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Regione Emilia Romagna in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost. dichiarando illegittima la disposizione dell’art. 22 della legge n. 448 del 2001 nella parte in cui non prevede “…che la competenza degli uffici scolastici regionali viene meno quando le regioni, nel proprio ambito territoriale attribuiscono a propri organi la definizione delle dotazioni organiche del personale docente delle istituzioni scolastiche”, elemento questo particolarmente complesso in cui le argomentazioni che la Corte Costituzionale pone sono interessanti perché, pur non definendo le sfere di competenza delle norme generali su cui lo Stato ha competenza esclusiva e quelle dei principi fondamentali che sono destinati invece a orientare la legislazione concorrente delle Regioni, individua la programmazione della rete scolastica - in cui rientra la definizione della dotazione organica del personale docente e non docente - come oggetto di legislazione regionale.

Tale sentenza porta a un altro tipo di considerazioni che attengono alle questioni aperte con la riforma del Titolo V. Nell’incertezza dell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione e in attesa della definitiva conclusione delle iniziative - che io definisco provocatorie - avanzate dal Centrodestra in materia di devolution, è ormai matura la necessità di una iniziativa di carattere legislativo regionale che, respingendo ogni ipotesi strumentale di contrapposizione con la legislazione statale, possa finalmente collocarsi in materia di istruzione, formazione e propensione al lavoro all’interno e nel pieno recepimento dell’ordinamento nazionale dell’istruzione la cui definizione è di esclusiva competenza dello Stato.

Il nuovo Titolo V individua l’istruzione come materia sulla quale la Regione esercita una potestà legislativa concorrente, fatta salva la competenza esclusiva dello Stato in materia di norme generali dell’istruzione e fatta salva la competenza dello Stato nel definire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Rientrano evidentemente tra queste prestazioni tutte quelle che riguardano l’istruzione e la formazione.

Dalla legislazione concorrente esercitabile nell’ambito di leggi cornice definite a livello statale sono escluse, con diverse destinazioni, sia l’istruzione che la formazione professionale - competenza esclusiva delle regioni, ma anche l’autonomia scolastica che è competenza esclusiva dello Stato; le disposizioni sull’autonomia scolastica si possono quindi cambiare soltanto con legge dello Stato. Questo è il più significativo portato della cosiddetta - costituzionalizzazione - dell’autonomia.

Qui si apre però un nuovo interrogativo e cioè il fatto che al nuovo assetto delle competenze legislative corrisponde in Costituzione un nuovo profilo delle competenze amministrative.

Innanzi tutto la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva - salva la delega che viene fatta alle Regioni; su ogni altra materia - e quindi su quelle su cui si esercita potestà legislativa concorrente - la potestà regolamentare spetta alle Regioni. I Comuni, le Province, le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle loro funzioni. In base a questo principio le leggi regionali auspicabili, individuati i principi e i livelli che regolano e articolano le competenze amministrative, potranno acquistare un carattere effettivamente essenziale e più cogente, e quindi meno farraginoso: possono quindi diventare un elemento di certezza da questo punto di vista.

In questo quadro, la nuova Costituzione assegna ai Comuni le funzioni amministrative relative a ogni tipo di materia e di funzione. Ciò avviene con la limitazione - che rappresenta sicuramente uno dei nodi politici di questa fase - di salvaguardarne l’esercizio unitario che spetta alle Province, alle Città metropolitane e allo Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e soprattutto sulla base del principio fondamentale di unitarietà. Non vi è dubbio che la legge statale dovrà stabilire la distinzione tra funzioni attribuite allo Stato e funzioni proprie o delegate alle Regioni. Così come è evidente che saranno le leggi regionali a individuare le modalità e le sedi del citato esercizio unitario che è di carattere fondamentale.

Anche nella definizione del nuovo assetto degli organi collegiali si intrecciano le competenze legislative e amministrative di cui parlavo prima. Sicuramente su questo vi è un vuoto di carattere normativo: non abbiamo ancora la legislazione. Inoltre bisogna individuare un sistema di regole che sovraintendano ai nuovi organismi e che tengano insieme un sistema di rappresentanza di poteri, come le componenti del mondo della scuola - insegnanti, docenti, non docenti e studenti che sarebbero “fatti fuori” completamente da qualsiasi ragionamento sul nuovo assetto della scuola.

Si tratta soprattutto di costruire un sistema di rappresentanze di equilibrio di poteri che tenga conto di tre fattori: l’autonomia scolastica, il diverso ruolo e competenze degli enti locali, la necessità di costruire un intreccio sapiente ed equilibrato tra queste diverse realtà.

Noi non siamo qui a ricordare in maniera nostalgica l’esperienza del 1974. Vi è stato sicuramente un buon percorso da allora, ma è indubbia l’esigenza di riaprire un ragionamento che prefiguri uno schema di assetto che tenga conto della riforma del Titolo V, delle competenze legislative, delle competenze amministrative e delle esperienze importanti realizzate con lo sguardo a quello che è la scuola oggi. Una scuola oggi molto ricca, una scuola che ha bisogno di un rapporto diretto e fecondo con il territorio e con il sistema delle autonomie locali, una scuola che non viene contemplata nelle proposte di leggi e di decreti che ci sono stati presentati.

È questo il senso di questa iniziativa. Spero che da qui possa partire un inizio di riflessione - e, perché no, anche di proposta - affinché questa Provincia, insieme a chi fa la scuola, possa diventare elemento di riferimento per contribuire con la sua importante e forte esperienza a un ridisegno dell’assetto degli organi collegiali che sia il frutto di un’esperienza accompagnata dalla volontà di perseguire la realizzazione di una scuola sempre più plurale, con un saldo rapporto con il territorio e con gli enti locali. La volontà di affrontare questo equilibrio delicato, definisce l’impegno che ci siamo dati per garantire la piena partecipazione democratica di tutti nelle istituzioni come l’ente locale e la scuola.


Mario Guglietti

Noi consideriamo tuttora valida l’idea di fondo della riforma del 1973-74 e assumiamo come valori fondanti del nostro ordinamento i principi della collegialità, della democrazia e della partecipazione che consideriamo né intaccati né messi in crisi né tanto meno superati dall’evoluzione storica, culturale e sociale dall’ultimo trentennio ad oggi. L’idea di fondo della riforma del 1973-74 è tuttora valida: la scuola comunità, aperta al contributo partecipativo delle componenti che le danno vita, il costante, dinamico e leale rapporto di interlocuzione con i soggetti esponenziali del territorio, la solidarietà e la cooperazione interprofessionale, le sinergie nei processi decisionali fermo restando ruolo e responsabilità distinte sono, secondo noi, idee che devono ancora sostenere e permeare le scelte di natura ordinamentale che si faranno rispetto alla modifica degli organi collegiali, sia quelli a livello di istituto sia quelli a livello territoriale regionale e nazionale.

Intervengo nella mia veste di vicepresidente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, organismo in prorogatio di fatto per effetto di un principio già contenuto nel 233, il decreto legislativo di prima riforma degli organi collegiali territoriali del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, ma contenuto anche nei provvedimenti di delega per l’ulteriore riforma di questi organismi che l’attuale Governo ha lasciato decadere per non essere stato in grado, in diciotto mesi che il Parlamento aveva dato per l’integrazione dello stesso decreto, di ottemperare al principio di delega che sancisce che i componenti degli organismi tuttora in carica durano in carica fintanto che non verranno sostituiti dai nuovi organismi.

Le prospettive di vita istituzionale lasciavano pensare che con il 31 dicembre 2001 la nostra esperienza dovesse concludersi. Il panorama non è né semplice né facile.

Mi atterrò soprattutto all’esposizione dei punti di vista del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione sui temi della partecipazione, della programmazione, della democrazia e dell’autonomia scolastica.

Vado all’interrogativo di fondo proposto da questo convegno: servono ancora gli organi collegiali?

L’uso dell’avverbio di tempo “ancora” denota una precisa scelta di merito che a mio avviso è politica e istituzionale. I processi di cambiamento che hanno investito il nostro sistema educativo di istruzione e formazione, essi organi collegiali - rivisitati, aggiornati, coerenti con questa evoluzione - comportano una risposta positiva. Sono stati utili nella pratica concreta della partecipazione, della programmazione, della democrazia scolastica ed hanno preceduto e avviato quel discorso che ha portato poi all’approdo dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Essi hanno rappresentato una palestra di democrazia; hanno abituato concretamente i soggetti alla pratica del confronto, della mediazione, del perseguimento di obiettivi comuni e condivisi e quindi delle dinamiche dei percorsi decisionali.

Partecipazione, democrazia, programmazione sono da considerare criteri e valori che già ispiravano, informavano e connotavano sia gli indirizzi socio-politici che le scelte giuridiche istituzionali della prima metà degli anni Settanta da cui trassero legittimazione ordinamentale gli organi collegiali di partecipazione - democratica - alla gestione della scuola ai vari livelli. L’art. 1 dell’originario DPR 416 che è recepito testualmente nell’art. 3 del Decreto Legislativo n. 297 del 1994 - cioè il Testo Unico delle leggi sulle disposizioni legislative della scuola - istituendo gli organi collegiali e riordinandone alcuni preesistenti ne individuava esplicitamente la finalità istituzionale: esordisce l’art. 1 “al fine di realizzare la partecipazione alla gestione della scuola…”, finalità che non restava fine a se stessa, ma si incardinava in un disegno istituzionale ordinamentale di più ampio respiro: proseguiva, infatti, “…dando ad essa il carattere di una comunità interagente con la più vasta comunità sociale e civica”.

Siamo in presenza di una obsolescenza istituzionale e ordinamentale? Questi concetti hanno perso valore, vitalità, vigore?

No, noi consideriamo tuttora valida l’idea di fondo della riforma del 1973-74 e assumiamo come valori fondanti del nostro ordinamento i principi della collegialità, della democrazia e della partecipazione che consideriamo né intaccati né messi in crisi né tanto meno superati dall’evoluzione storica, culturale e sociale dall’ultimo trentennio ad oggi. Principi che, a nostro parere - ossia dell’organismo del quale attualmente svolgo le funzioni di vicepresidente, sono valorizzati da questa evoluzione e resi ancora più significativi dai processi di riforma che hanno attraversato e coinvolto il nostro sistema scolastico e formativo, con particolare riferimento al riconoscimento dell’autonomia scolastica sancito dall’art. 21 della legge n. 59 del 1997 - cioè la legge Bassanini - e più ancora dalla riforma del Titolo V della Costituzione.

L’idea di fondo della riforma del 1973-74 è tuttora valida: la scuola comunità, aperta al contributo partecipativo delle componenti che le danno vita, il costante, dinamico e leale rapporto di interlocuzione con i soggetti esponenziali del territorio, la solidarietà e la cooperazione interprofessionale, le sinergie nei processi decisionali fermo restando ruolo e responsabilità distinte sono, secondo noi, idee che devono ancora sostenere e permeare le scelte di natura ordinamentale che si faranno rispetto alla modifica degli organi collegiali, sia quelli a livello di istituto sia quelli a livello territoriale regionale e nazionale.

Sicuramente le scelte assunte nel 1973-74 non si sottraggono all’usura del tempo e risentono del clima politico-culturale e dei vincoli allora considerati irrevocabili perché discendenti dall’ordinamento amministrativo e didattico allora vigente; a tale proposito consentitemi una breve digressione sull’esperienza degli organi collegiali.

Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta e per tutto il successivo decennio viene esplicitamente messo sotto accusa l’assetto piramidale e gerarchico dell’amministrazione della pubblica istruzione. In quegli anni decentramento e partecipazione sono istanze che irrompono prepotentemente nel dibattito socio-culturale e politico-istituzionale alimentando e legittimando le diffuse ansie innovative e riformatrici di quegli anni. È vero che i decreti delegati del 1974 - varati anche a seguito di una decisa mobilitazione delle confederazioni sindacali - assumendo la collegialità e la partecipazione democratica come idee guida dell’auspicato e non più rinviabile processo riformatore, tentarono un ridisegno complessivo dell’impianto organizzativo e gestionale della scuola.

L’allora Ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti li definì una rivoluzione silenziosa, ma in realtà non ebbero alcunché di rivoluzionario trattandosi - questi rilievi furono esplicitati da qualificati esperti di diritto amministrativo, Daniele, Potoschning, Salasda, De Simone - di un’operazione di giustapposizione di nuovi organi collegiali democratici ai tradizionali organi monocratici della pubblica amministrazione - Ministro, provveditori, capi di istituto - che mantennero pressoché intatte le rispettive competenze gestionali e le connesse potestà autoritative a ciascuno derivanti dal livello di preposizione gerarchica.

La riforma del 1974 - si obiettò in quei tempi - non ha certamente realizzato quella gestione sociale alta della scuola, ma ha introdotto l’idea della scuola come unità, un’idea sottratta al dibattito, allora prevalentemente di carattere culturale e sociologico, per diventare un riferimento di natura istituzionale e ordinamentale.

I limiti di questa scelta sono stati riconosciuti anche dal Governo della decorsa legislatura in sede di predisposizione del Decreto Legislativo che poi sarebbe approdato alla riforma degli organi collegiali territoriali nel Decreto Legislativo n. 233 del 1999; in sede di relazione introduttiva si disse - sempre riferendosi all’esperienza del 1973-74: “L’istituzione dei predetti organi ha segnato un momento importante nella vita della scuola, delle componenti che in essa operano e delle stesse comunità locali. Le risposte in termini di efficacia dell’azione svolta dagli organi in questione non hanno tuttavia corrisposto alle attese e ciò soprattutto per la circostanza che essi sono sorti ed hanno operato in un sistema fortemente centralizzato nel quale le forme e gli spazi di autonomia delle scuole erano o praticamente inesistenti - autonomia didattica e organizzativa, o notevolmente limitati - autonomia amministrativa - e le stesse funzioni dell’amministrazione scolastica periferica, responsabile dell’andamento complessivo del servizio scolastico in sede locale, hanno risentito degli effetti negativi di un modello organizzativo funzionale fortemente squilibrato a favore delle strutture centrali.

E proprio tale sistema ha finito, in ultima analisi, col vanificare ogni sforzo teso ad instaurare un costruttivo rapporto e dialogo collaborativo con il sistema delle autonomie locali”.

Oggi lo scenario giuridico-istituzionale generale del paese è mutato rispetto ai vincoli nei quali si è imbattuta e si è realizzata l’esperienza della collegialità e della partecipazione; abbiamo avuto la sanzione giuridico-istituzionale dell’autonomia scolastica e quindi la generalizzazione della soggettualità giuridica a tutte le istituzioni scolastiche che prima ne erano prive e, più ancora, la modifica del Titolo V della Costituzione e in particolare il comma 3 del nuovo art. 117 Cost. ha elevato la tutela e l’autonomia delle istituzioni scolastiche a rango costituzionale con il famoso inciso “salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”, il che sta a significare che un intervento sull’autonomia non potrà che essere operata se non con legge dello Stato.

Tali modifiche dello scenario istituzionale hanno sostanzialmente modificato l’ambito di riferimento della collocazione istituzionale del sistema di istruzione di formazione e quindi hanno sollecitato un ripensamento del suo impianto organizzativo e gestionale e, conseguentemente un ripensamento della partecipazione collegiale e democratica non in quanto istanza socio-culturale e politico-gestionale - che noi continuiamo a ritenere irrinunciabile - ma in quanto all’individuazione degli strumenti, delle modalità, delle condizioni di effettiva fungibilità e di un concreto ed efficace esercizio.

Infatti già nel corso della richiamata XIII Legislatura in connessione con i tre grandi filoni di innovazione del sistema introdotto dalla Bassanini - il federalismo amministrativo con conferimento di importantissimi compiti e funzioni amministrative al sistema regionale, provinciale e comunale; il decentramento e quindi il trasferimento di compiti gestionali dal centro agli uffici scolastici regionali; l’autonomia - veniva chiaramente e lucidamente proposto al dibattito politico la questione della riforma degli organi collegiali, sia a livello di scuola del quale già si stava autonomamente occupando il Parlamento - disegno di legge Acciarini ed altri, sia a livello territoriale per il quale il comma 15 dell’art. 21 prevedeva una specifica delega al Governo compiutamente esercitata e perfezionata con il Decreto Legislativo n. 233 del 1999.

Ciò nonostante, oggi siamo in presenza di un imbarazzante paradosso politico, giuridico e istituzionale: l’impianto partecipativo pensato e realizzato agli inizi degli anni Settanta in quanto a soggetti, livelli, attribuzioni, compiti, responsabilità e dinamiche relazionali, sul piano giuridico-ordinamentale è da ritenersi tuttora vigente, anche se per taluni aspetti di fatto inoperante, sia per effetto del mancato perfezionamento di provvedimenti riformatori o arenatosi nelle paludi parlamentari, sia a causa della sospensione dell’applicazione di riforme già perfezionate. Appare curioso il comportamento di un Governo che, pur in mancanza di nuovi progetti riformatori, sospende l’applicazione di leggi già esistenti.

Da un punto di vista di natura giuridico-istituzionale non è proprio quanto di meglio la scuola possa aspettarsi. Quindi sia nell’uno che nell’altro caso sono evidenti e censurabili le responsabilità governativa e parlamentari.

Il CNP non si è estraniato da questa vicenda e fin dal 1999 ha posto all’ordine del giorno dei suoi lavori la necessità di un’accurata riflessione sul significato, sul ruolo e sui soggetti della partecipazione. La volontà di ritenere ancora culturalmente e politicamente valida l’idea della collegialità e della partecipazione, la riforma degli organi collegiali, tra gli obiettivi, deve porsi quello di superare il concetto di partecipazione indistinta che nell’esperienza concreta si è andata sempre più caratterizzando come priva di ruolo, di poteri e di prerogative. È da ciò che poi è nato quell’atteggiamento di disaffezione verso impegni così poco edificanti. Tra il dicembre 1998 e la primavera 1999 ritenevamo che dovesse tenersi conto delle novità normative introdotte dagli artt. 138 e 139 del Decreto Legislativo n. 112 - tuttora vigente anche se superato in quanto a compiti e funzioni - che attribuiva alle regioni, alle province e ai comuni notevolissime competenze in materia scolastica.

Per quanto riguarda le strutture territoriali, ritenevamo che ci dovesse essere una simmetria e un parallelismo tra le mutate competenze dell’amministrazione e i soggetti della rappresentanza, quindi pensavamo a forme di partecipazione più sostanziali che non formali tra le scuole dell’autonomia e le rappresentanze dei soggetti esponenziali nel territorio.

Troviamo - e lo diciamo con grande soddisfazione - che queste nostre riflessioni hanno trovato eco sostanziale nel durissimo e severo parere espresso dalla Conferenza Stato/Regione che recepiva i pareri espressi dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e dall’ANCI i quali - di fronte all’approvazione in deliberazione preliminare da parte del Governo del nuovo schema di decreto legislativo che avrebbe dovuto integrare e modificare il Decreto n. 233 - hanno fatto salvi i criteri e i principi sanciti nel comma 15 dell’art. 21 della legge Bassanini. La severità del giudizio si è espressa nella richiesta di ritiro dello schema di decreto legislativo già deliberato dal Consiglio dei Ministri, di una proroga della delega e dell’apertura di un tavolo di confronto interistituzionale tecnico-politico per il riesame dell’intera materia.

Il CNP non si è ancora pronunciato sullo schema di decreto legislativo perché è stato escluso dalla fase istruttoria di questa procedura - tecnica peraltro ormai consolidata del Governo - e quindi ci riservavamo di intervenire solo in sede di richiesta parere del quale sollecitavamo un nostro coinvolgimento formale. L’ultima presa di posizione dell’ufficio legislativo del Ministero è che, essendo la situazione ancora molto fluida ed essendoci questo parere profondamente negativo della Conferenza Stato/Regione, il Ministro si riserva un approfondimento su questa materia. Pertanto in attesa degli eventi il Consiglio Nazionale, il Consiglio scolastico provinciale e i Consigli scolastici distrettuali continueranno, pure in questo vulnus di natura giuridico-istituzionale, a svolgere la loro funzione anche se in un quadro giuridico-istituzionale completamente modificato.

Emanuele Barbieri

La partecipazione degli organi collegiali serve, la scuola senza partecipazione è come un motore senza olio e poi magari apparentemente le cose possono andare meglio, ma nei fatti ci sono delle difficoltà serie. Il dibattito sulla devolution sembra un dibattito tra Stato e regioni; forse non è questo il problema: i problemi emergono nel rapporto tra regioni e scuole. Nel 1996 agivamo in modello analogo a quello prospettato da Gentile, nel 2002 ancora come Gentile. Siccome poi a scuola ogni anno siamo costretti a rivedere ordinamenti, programmi, sperimentazioni, è mai possibile che non ci possa essere un organo tecnico di monitoraggio e di proposta di riforma? Ecco una proposta ....

La domanda (la partecipazione serve?) è legittima. Dal 1974 ad oggi sono passati trent’anni, dall’ultima tornata di elezioni degli organi collegiali - 1996 - sono passati otto anni e sono cambiati tutti i parametri che riguardano la scuola. La partecipazione degli organi collegiali serve, la scuola senza partecipazione è come un motore senza olio e poi magari apparentemente le cose possono andare meglio, ma nei fatti ci sono delle difficoltà serie.

Potremmo affrontare il tema degli organi collegiali secondo il metodo top/down - dall’alto in basso, io preferisco un approccio che parta dalla scuola nel riflettere sulle forme di partecipazione e sul modo di come possano essere realizzate, tenendo presente che oggi abbiamo il problema di chi abbia la competenza a stabilire queste nuove forme di partecipazione; solitamente noi siamo abituati ad aspettarci una legge dello Stato, mentre forse la questione è più articolata. Infine, vedremo quali sono le forme di partecipazione necessarie e adeguate per consentire alle istituzioni costitutive della Repubblica - comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato - e alle istituzioni scolastiche autonome di esercitare in modo efficace le loro funzioni in materia di istruzione. Sono tanti i soggetti che hanno competenze diverse in materia di istruzione e io credo che per i diversi soggetti siano necessarie specifiche forme di partecipazione.

Partiamo dalla scuola. Il compito della scuola è definire e realizzare l’offerta formativa tenendo conto delle funzioni delegate alle regioni e dei compiti e funzioni trasferite agli enti locali; deve promuovere il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali, gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione. Questi sono i parametri regolatori di cui l’autonomia scolastica ha bisogno e per poter svolgere questa funzione le istituzioni interagiscono con loro e con gli enti locali. La predisposizione di una riforma degli organi collegiali che non accoglie queste indicazioni secondo comporta un non senso, perché si assegna un compito ad un soggetto con diverse e ambigue forme di partecipazione.

Specificando su come la scuola realizza la sua funzione, l’art. 3 del regolamento sull’autonomia scolastica prevede il Piano dell’offerta formativa della scuola dell’autonomia. Tale Piano deve presentare tali caratteristiche:

la coerenza con gli obiettivi generali educativi dei diversi tipi di indirizzi di studi determinati a livello nazionale - anche qui viene ribadita una funzione nazionale;
l’esigenza del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale;
la programmazione territoriale dell’offerta formativa.
A questo punto il dirigente scolastico, al fine di presentare al consiglio di istituto queste esigenze, attiva i necessari rapporti, quindi è lasciata alla capacità, alla volontà, al tempo del dirigente scolastico di attivare i necessari rapporti con gli enti locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio. Il Piano dell’offerta formativa è reso pubblico alle famiglie.

Abbiamo nelle scuole autonomie funzionali supportate dagli organi tecnici preposti a realizzare il servizio di istruzione teso a garantire un diritto fondamentale di cittadinanza. Queste scuole hanno gli obiettivi nazionali, le funzioni delegate alle regioni, le esigenze e le attese, espressione quest’ultima rinvenuta nell’art. 8 del regolamento sull’autonomia: esigenze e attese delle famiglie, esigenze e attese degli enti locali, esigenze formative degli alunni concretamente rilevati, esigenze e attese dei contesti sociali, culturali ed economici del territorio.

Raccogliendo tutto questo, le scuole devono garantire il diritto all’istruzione e quindi il successo formativo ai loro alunni.

Tutte le istanze confluiscono nel consiglio di istituto il quale dà gli indirizzi. Il collegio dei docenti elabora il POF; il consiglio lo adotta e poi l’attuazione spetta al dirigente scolastico e al team di gestione.

Mi soffermo ora sulla definizione degli indirizzi, e su come il dirigente scolastico riesce a raccogliere le esigenze, le istanze e le attese delle famiglie. A mio avviso sarebbe sufficiente una conferenza di scuola, convocata dal dirigente scolastico, composta dal consiglio di istituto, dai rappresentanti delle famiglie e degli studenti, dai rappresentanti degli enti locali e dai rappresentanti delle realtà produttive sociali. Anche questa proposta va declinata a seconda degli ordini di scuola. In una prima riunione questa conferenza rappresenta le istanze, dopodiché la scuola deve giustificare il complesso delle scelte che hanno determinato il piano dell’offerta formativa.

La scuola dell’autonomia non è un apparato autoreferenziale, assume la sfida di rendere conto delle proprie azioni e per questo si può autogovernare. Infine, viene elaborato un rendiconto di fine anno. Le discussioni su pesi e contrappesi, forse, vengono a cadere perché questo è il modo con cui la comunità locale si rapporta alla comunità scolastica.

Chi ha la facoltà di fare queste cose? L’art. 33 Cost. dice che la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione. La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato, la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni.

Secondo la Costituzione alcune materie sono potestà esclusiva dello Stato, alcune sono concorrenti e altre esclusive delle regioni. La competenza esclusiva dello Stato in materia di istruzione e formazione professionale riguarda: i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, le norme generali sull’istruzione e i principi fondamentali cui si deve ispirare la legislazione regionale “fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Quindi abbiamo alcune questioni che sono definite, altre da definire e uno spazio dell’autonomia i cui confini devono essere delineati.

Il dibattito sulla devolution sembra un dibattito tra Stato e regioni; forse non è questo il problema: i problemi emergono nel rapporto tra regioni e scuole perché nel momento in cui si danno competenze in materia di organizzazione scolastica di gestione degli istituti scolastici, si entra dentro materie che l’art. 21 del regolamento dell’autonomia aveva conferito alle scuole. Per quanto riguarda la definizione dei programmi scolastici per la parte di interesse regionale, sembra che vi sia un regresso rispetto al principio dell’autonomia e di curricoli: qui si riparla di programma e quindi si ha una ingerenza rispetto alla facoltà di progettazione e di realizzazione da parte delle scuole.

Per dipanare la matassa delle competenze ho provato a utilizzare la sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 2004 nella parte in cui recita che “…è implausibile che il legislatore costituzionale abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che era già ad essa conferita nella forma della competenza dell’art. 138 del Decreto Legislativo n. 112”. L’attuazione della Bassanini attraverso il Decreto Legislativo n. 112 aveva elencato le competenze dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni. Nel momento in cui l’art. 117 potenzia la struttura federale, non è pensabile che abbia voluto sottrarre competenze già trasferite: è un ragionamento in negativo che agevola una ricognizione delle competenze per una classificazione secondo le norme generali e i principi fondamentali.

Le dizioni della legge n. 59 riferite agli ordinamenti scolastici, ai programmi scolastici, all’organizzazione generale dell’istruzione, allo stato giuridico del personale, rappresentano le definizioni delle competenze non trasferite. Sulla base del regolamento dell’autonomia e declinando i programmi scolastici, nell’art. 8 possiamo trovare la traduzione più corretta di programma: gli obiettivi generali del processo formativo, gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni, le discipline e attività costituenti la quota nazionale dei curricoli e il relativo monte ore annuale.

Queste a mio avviso sono l’equivalente dei programmi. Vi sono poi: l’orario annuale complessivo dei curricoli - se a scuola i ragazzi devono stare 30 o 36 ore, i limiti di flessibilità temporale, gli standard relativi alla qualità del servizio, gli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni, gli obblighi complessivi di servizio dei docenti previsti dai contratti, l’obbligo di adottare strumenti di verifica. Questi a mio avviso sono l’equivalente dei programmi e dei livelli essenziali delle prestazioni cui tutti si devono attenere.

Le regioni hanno il compito della programmazione e dell’offerta formativa nei limiti delle risorse umane e finanziarie. Il nuovo art. 119 Cost. parla di federalismo fiscale e quindi, una volta che le regioni avranno capacità impositiva, stabiliranno loro le risorse da destinare; ma fino a che questo non avverrà, per garantire il servizio lo Stato, che attualmente garantisce le risorse umane e finanziarie, compirà un’operazione di trasferimento. La sentenza della Corte Costituzionale dice che, anziché trasferirle all’ufficio scolastico regionale, le deve trasferire alla regione.

Veniamo alle province. Su tutta la materia era previsto il parere del Consiglio Scolastico Provinciale, organo di partecipazione di supporto all’azione dell’amministrazione scolastica. Nel momento in cui alcune competenze sono state trasferite alle province, appare nel contempo una falla, perché nessuno ha previsto il parere del CSP.

La stessa cosa riguarda i comuni: anche qui troviamo materie rispetto alle quali il Consiglio Scolastico Distrettuale e il Consiglio Scolastico Provinciale avevano competenza: diritto allo studio, orientamento, educazione degli adulti, uso delle attrezzature e dei locali. La legge dello Stato ha trasferito queste competenze ad un altro soggetto ma vi è da colmare un vuoto. Credo che siamo in una fase costituente dell’autonomia scolastica e quindi alcuni tasselli vanno costruiti, altrimenti la provincia, in nome della democrazia e del decentramento, non agirebbe più in un’ottica partecipativa, con l’attivazione di proposte senza sentire nessuno o dialogando soltanto le scuole interessate.

La questione dei distretti e dei Consigli Scolastici Provinciali non si pone in termini di conservazione o di innovazione fine a se stessa, ma nelle esigenze derivate dalla mutazione del quadro di riferimento istituzionale. In termini di efficacia e di funzionalità una provincia deve esercitare la propria competenza di programmazione dell’offerta formativa sul territorio stabilendo, ad esempio, l’indirizzo per ragionieri piuttosto che altri indirizzi.

L’esercizio di questa competenza deve avvenire in modo autonomo o tenendo conto della domanda, dell’offerta, delle vocazioni, delle prospettive? La sicura preferenza per la seconda ipotesi, richiamerebbe l’esigenza dell’istituzione delle conferenze territoriali. Il Dec. L.vo n. 112 prevedeva gli ambiti territoriali funzionali all’organizzazione del servizio scolastico del territorio; nessuna regione ha ottemperato a quanto emanato. La Provincia di Roma ci sta provando. Attraverso la progettazione di ambiti più ampi con le rappresentanze dei Comuni, delle scuole, sociali, del personale, dei genitori, degli studenti. Le rappresentanze DEF dovrebbero essere paritetiche. Per esempio, nel comprensorio di Subiaco - Roma - e dintorni ci sono venti scuole e una ventina di Comuni per un totale di quaranta persone. Se accogliamo anche la rappresentanza del mondo delle imprese e dei lavoratori, raggiungiamo una cinquantina di persone. La programmazione dell’offerta formativa sul territorio non può dunque prescindere dall’attivare queste forme di partecipazione.

I compiti della conferenza territoriale dovrebbero essere analoghi a quelli dei distretti. Il referente è il comune o la provincia perché anche vi era la possibilità da parte di comuni e province di istituire organi collegiali - provinciali o comunali - a loro spese. Un accordo tra la provincia e il comune eviterebbe una stratificazione in verticale della scuola e quindi in queste conferenze territoriali si potrebbero acquisire tutte quelle indicazioni, quei pareri e quelle proposte necessari a esercitare le funzioni delle province e dei comuni. E senza un’eccessiva fatica si potrebbe costituire anche un coordinamento provinciale di queste conferenze per ottenere una sintesi proficua.

Il modello non sarà sempre lo stesso, dato che si configurerà in base alle caratteristiche singolari di ogni provincia.

Credo che a livello regionale ci sia bisogno di un organo tecnico per le forti competenze in materia di istruzione. Ogni volta che il Ministro esercitava le sue prerogative - compresa quella della proposta di legge del Governo, sentiva il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. L’art. 8 prevede che gli obiettivi specifici vengano emanati dal Ministro previa indicazione delle Commissioni parlamentari e parere del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Credo che in modo analogo ci debba essere un organo tecnico a composizione mista del mondo della scuola. Ci deve essere poi un organo di tutela dell’autonomia, dei diritti degli studenti, delle prerogative degli insegnanti.

Questa impalcatura è retta dall’art. 33 Cost. L’autonomia delle istituzioni scolastiche è una garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale: cioè l’idea di un sistema dell’istruzione nazionale caratterizzato da una possibilità di diversificare l’offerta formativa tenendo conto dei contesti e delle esigenze, è garantita dall’autonomia scolastica. Essa si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie: questo è cioè lo spazio dell’autonomia.

In questo spazio la potestà legislativa non può interferire.

Penso che avremmo bisogno di descrivere meglio questo spazio, di fare una sorta di Carta della scuola dell’autonomia per poi definirne gli organi.

Nel 1996 agivamo in modello analogo a quello prospettato da Gentile, nel 2002 ancora come Gentile. Siccome poi a scuola ogni anno siamo costretti a rivedere ordinamenti, programmi, sperimentazioni, è mai possibile che non ci possa essere un organo tecnico di monitoraggio e di proposta di riforma?

La risoluzione dei conflitti tra l’amministrazione scolastica e l’autonomia scolastica è un problema. Si pensi ad alcune sollecitazioni che ho avuto nell’esercizio delle mie funzioni di Direttore generale da parte di qualcuno che mi chiedeva perché non avessi preso le sanzioni disciplinari nei confronti di un insegnante che aveva parlato male del Governo. Allora bisogna mettere la scuola dell’autonomia al riparo da questo tipo di ingerenze; per esempio il dirigente scolastico dovrebbe essere messo al riparo da un rapporto strettamente gerarchico dall’amministrazione, se vogliamo una garanzia di autonomia e indipendenza.


Giancarlo Cerini

Il punto focale è quello della responsabilità che implica la rendicontazione delle azioni attraverso la trasparenza dei processi decisionali. Bisogna che ci sia una imputabilità delle attività a dei soggetti identificati. Di qui la rilettura delle responsabilità gestionali del dirigente scolastico. La responsabilità comporta la riscoperta di spazi istituzionali e fisici per la partecipazione dei genitori che non sono solo quelli della concertazione e della mediazione all’interno di un consiglio di istituto. La valutazione è un elemento che dà un senso complessivo, e allora nelle proposte di riforma degli organi e degli organismi di gestione i nuclei di valutazione devono essere affiancati ai processi di autovalutazione, per rendere concreta una capacità di regolare e migliorare i processi di formazione.

Svolgerò una riflessione rivolta alle dinamiche interne alle istituzioni scolastiche. Concordo sul fatto che siamo appena nell’anticamera dell’autonomia scolastica. Uno scenario diverso dopo venticinque anni di decreti delegati ci dà il segno che si è aperta nuova stagione. Reinterrogarsi sul “dove eravamo rimasti”, su quale è il senso oggi della partecipazione credo sia stato un atto di coraggio dell’Amministrazione provinciale, perché probabilmente le urgenze forse sono altre, ma è giusto occuparsi delle regole del gioco anche quando si fa duro.

Parlando di partecipazione, oscilliamo, da una parte, tra un insieme dei genitori come un soggetto politico disordinato - e questo ci dà un’immagine della domanda di partecipazione - e, dall’altra, una proposta di riforma che sollecita in maniera esplicita uno spostamento del baricentro delle scelte educative e di politica scolastica verso un ideal tipo di famiglia che non corrisponde più alla pluralità di situazioni variegate nel nostro paese. E tale scelta è avocata immediatamente ai genitori e agli studenti piuttosto che agli operatori scolastici. Questa sollecitazione vede però i genitori quasi come titolari di un privatissimo diritto all’istruzione. Qualche studioso anglosassone parla quasi di una “genitocrazia”, cioè l’educazione dei figli che dipende dalle condizioni e dai desideri dei genitori anziché dalle abilità e dagli sforzi dei figli.

Il disagio che proviamo ad affrontare un tema complesso, delicato, che è anche il crocevia di culture diverse rispetto al ruolo, ad esempio, dei genitori forse risiede anche in questo tipo di percezione e di idea culturale.

Allora credo che riparlare di partecipazione, di gestione collegiale, di cittadinanza attiva, di regole del gioco, di organi collegiali, di strumenti di partecipazione, di riscoperta del senso dell’autonomia possa aiutare a ricomporre questa lacerazione e a riscoprire il significato di una progettualità pubblica condivisa sull’educazione. È giusto non vedere nei genitori semplicemente dei soggetti politici collettivi, perché vi è anche l’esigenza di una crescita di una genitorialità consapevole. La linea che è già emersa da questi primi interventi sia quella di aiutarci a condividere un progetto nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità.

La riforma del 1974 cercava di considerare anche le grandi culture del nostro paese: per esempio, la cultura cattolica, comunitaria, personalista, solidarista oppure la cultura laica che guardava ai modelli anglosassoni di partecipazione di autogoverno - penso all’idea del distretto, alla cultura della Sinistra legata ai temi della cittadinanza, della democrazia, del ruolo del territorio, della gestione sociale. È un tentativo generoso che forse oggi tutti hanno detto di dover rileggere con occhi diversi.

Oggi il messaggio è di un potente richiamo alla libertà. Il richiamo alla libertà vi è anche nel regolamento dell’8 marzo 1999 n. 275 dove viene giocata fortemente quasi in termini eversivi nei confronti delle istituzioni: penso al cattivo uso che si fa della parola federalismo nella sua versione urlata padana corsara, quando invece il federalismo va associato alle radici della democrazia: ai tempi degli Stati Uniti di fine Settecento che lottavano contro un potere imperiale o quando a Altiero Spinelli a Ventotene nel 1941 lanciò l’idea del federalismo, delle ragioni dello stare insieme in modo diverso - il federalismo europeo. Dico questo perché come CIDI - Centro Iniziativa Democratica Insegnanti - di cui sono il vicepresidente abbiamo realizzato in questi giorni un grosso convegno sulle prospettive europee.

Sembra che i ruoli delle istituzioni incontrino una difficoltà rispetto al loro senso di esistenza. Si tende a dire che forse non sono in grado di fare fronte alle nuove domande sociali perché magari la globalizzazione lascia intravedere nuove potenzialità: per esempio, le reti informative, gli scambi, le connessioni sembrano quasi rendere superfluo il ruolo delle istituzioni. Certo, oggi si riscopre anche il valore dell’identità, il valore dell’appartenenza, il valore delle risorse locali; forse anche da queste istanze nasce la riscoperta della sussidiarietà e qui mi piace vedere un partito trasversale della sussidiarietà, cioè l’idea di una cura degli interessi il più possibile vicino ai diretti interessati.

Ci possono però essere dei rischi in questa enfasi del principio di sussidiarietà. È giusto valorizzare e responsabilizzare le periferie, ma è evidente il rischio di un localismo e di un comunitarismo: cioè il confine tra l’autonomia e l’autarchia non è sempre chiaro. Penso che la scuola abbia come sua finalità istituzionale l’esigenza di tendere oltre il particolare, superare i confini, ampliare orizzonti. A scuola vi è l’incontro dei ragazzi con i saperi universali per andare oltre l’immediato presente, per ampliare interessi e a stabilire nuove regole di convivenza: è quella che chiamiamo la cultura disinteressata.

Il rischio è che un approccio localistico potrebbe determinare la chiusura e la separatezza mettendo a repentaglio le finalità istituzionali della scuola. Ecco perché allora non è sufficiente una visione comunitaristica o organicistica, tanto meno delle piccole patrie etniche che stanno sulla difensiva.

Sono già stati delineati i percorsi evolutivi istituzionali dalla prima Costituzione del 1948 - molto centrata su questo ruolo illuminista della scuola di stato - alla decretazione degli anni Settanta - perché negli anni Settanta non ci sono solo i decreti delegati ma anche tante leggi sociali, alla legge n. 59 che mi sembra un accettabile punto di equilibrio, alle incertezze che abbiamo di fronte al Titolo V e alla futura terza Costituzione - cioè la devolution.

Le connessioni tra queste evoluzioni istituzionali, le regole fondative della Repubblica e la scuola sono oggi molto evidenti; il punto di intreccio è proprio l’autonomia e ne cosa pensiamo. È stato ricordato che autonomia funzionale della scuola significa rafforzamento della posizione della scuola istituzionale nei confronti dell’amministrazione scolastica ma anche nei confronti degli enti locali: quel “fatta salva l’autonomia della scuola” che è sia nel Titolo V sia nella terza Costituzione è certamente la richiesta di una riserva di legge rispetto all’eventuale legislazione concorrente o esclusiva delle Regioni. Poi - dice Barbieri - c’è un’incongruenza perché rischiamo di affidare alle regioni la legislazione esclusiva in materia di gestione e di organizzazione che sono le due prerogative forti dell’autonomia scolastica.

Vi è una sorta di vulnus in questo “fatta salva l’autonomia della scuola” perché l’autonomia si sostanzia nell’autonomia gestionale e organizzativa.

È importante ricordarsi della scuola come espressione dell’autonomia funzionale che è ben rappresentata dall’attribuzione della personalità giuridica alle nostre 11.000 scuole perché questo segnala, da un lato, la terzietà della scuola nei confronti dell’amministrazione. Ma dall’altro lato, la personalità giuridica è anche il segnale che non siamo di fronte a una visione originaria, istituente, organicistica delle singole autonomie scolastiche, perché la personalità giuridica la conferisce l’ordinamento giuridico.

Il dimensionamento - cioè la vita e la morte - delle istituzioni scolastiche, per esempio, ci richiama a una giusta collocazione delle autonomie scolastiche nell’ambito dell’ordinamento. Ad una personalità giuridica con un’autonomia istituzionale e con autonomia di dimensionamento, si ha la mancanza di un organico funzionale; e l’assenza di un budget garantito e non filtrato giorno dopo giorno dai flussi di cassa. Manca quindi l’autonomia vera che trasforma la scuola in un centro di risorse e di professionalità, con una propria identità e progetto. Ecco perché credo sia stata giusta l’operazione del dimensionamento sostenibile all’autonomia della scuola come centro pensante che non subisce pressioni localistiche da parte del territorio o del mercato o degli utenti.

Vista in questo modo - come capacità di interlocuzione autorevole, l’autonomia porta con sé una domanda di responsabilità - c’è anche nell’art. 21 della legge 59 - attraverso un rapporto più impegnativo con la comunità esterna e con le istituzioni locali. Segnalo questa rapporto in un’etica della responsabilità che renda conto degli spazi di autonomia: il “chi siamo” da parte della scuola, il “cosa sappiamo fare”, il “cosa ci impegniamo a fare” e il “come rendiamo conto di quello che facciamo”. La dimensione di autonomia istituzionale, per chi sta dentro la scuola, è autonomia culturale e autonomia professionale.

Quando parliamo di partecipazione o di organi collegiali o di territorio o di autonomia, dobbiamo avere un senso di forte rispetto verso gli operatori scolastici: sono loro la scuola, sono loro la riforma. E dobbiamo sapere ascoltare e valorizzare la loro domanda. L’autonomia può essere una opportunità per la valorizzazione di questa professionalità.

La scuola dell’autonomia ha bisogno di riscoprire il valore della professionalità, di riscoprire la centralità dei processi di insegnamento/apprendimento. Non è solo una semplice trasmissione del sapere, ma occorre la mediazione culturale e quindi il rapporto con i saperi condivisi dalla comunità scientifica e professionale. Questi criteri non li vedo oggi alla base di una condivisione di un progetto: penso all’idea dell’autonomia professionale dell’insegnante e della collegialità degli insegnanti e quindi il rileggere il principio della libertà di insegnamento affiancato a questa assunzione di responsabilità condivisa.

L’autonomia e gli organi collegiali, con sedi aventi una responsabilità condivisa, collegiale, forte, autorevole degli insegnanti, costituirebbero un elemento anche di accompagnamento dello sforzo e del disagio che oggi si manifesta nelle scuole. Gli organi collegiali non li vedrei semplicemente come un tentativo di imbastire degli equilibri scontati nelle nostre scuole; c’è un’identità progettuale della scuola che deve essere responsabile anche di indirizzi. L’attuale è più chiara distinzione tra le funzioni di indirizzo da un lato e le funzioni di gestione dall’altro, ci aiuta disporre l’intelaiatura degli strumenti partecipativi. Però quando parliamo per esempio di indirizzi del consiglio di istituto dobbiamo cogliere il gioco dialettico tra indirizzi nazionali della singola istituzione e indirizzi territoriali. Va precisato il rapporto tra le decisioni locali attribuite alla responsabilità delle singole scuole e gli indirizzi nazionali di competenza dello Stato.

L’insistenza sulla centralità delle componenti professionali all’interno della scuola non rappresenta la linea difensiva dell’autoreferenzialità degli insegnanti sul mondo esterno, quanto la sottolineatura del carattere istituzionale della scuola che non è semplicemente un luogo dove si risponde a una domanda individuale dell’utente cliente, ma è un luogo dove si elabora una progettualità pubblica condivisa.

Di qui vi è un grande spazio per strumenti tecnici, dipartimenti, momenti istruttori, staff intermedi come espressione di progettualità tecnica, di elaborazione culturale. Non vi dovrebbe essere, pertanto, un’alleanza collusiva tra insegnanti e genitori, come oggi rischiamo di leggere in una serie di messaggi che vengono mandati quando si parla per esempio del diretto intervento dei genitori sulle scelte di età di accesso alla scuola o sulla scelta su una parte degli orari di funzionamento della scuola o sulla cogestione di linee didattiche. Credo che invece si debba parlare di una dimensione di crescita attraverso il confronto, l’ascolto, la partecipazione anche di una genitorialità matura e consapevole, per esempio, su come cambiano i rapporti all’interno della famiglia, su come cambiano i concetti di paternità e di maternità.

Le cose più belle che ho visto nella scuola dell’infanzia erano quelle belle serate per i genitori dei bambini di cinque anni in cui si metteva nel cartellone dell’atrio della scuola un messaggio: “Andiamo insieme alla scuola elementare” perché l’idea era: è un momento importante per noi, ci fidiamo dei nostri insegnanti, ci parleranno di questo passaggio importante, forse ne avranno già parlato con gli insegnanti delle elementari, ci sarà un progetto delle istituzioni, cresciamo su questo. Oggi invece se vedo cos’è l’anticipo lasciato a una scelta solitaria, in solitudine, quasi nascosta da parte dei genitori vedo tutta la differenza anche in una richiesta di attenzione alla specificità genitoriale della partecipazione.

L’autonomia quindi non è semplicemente la possibilità di rispondere rispondere in maniera immediata ai bisogni e alle domande puntuali. La scuola deve rilanciare il proprio progetto; di qui lo spazio nuovo degli organi collegiali e dell’autonomia.

Se l’autonomia non è un “fai da te” ma ha bisogno di capisaldi forti, di un progetto culturale affidabile di carattere pubblico, sono d’accordo con Mario Reguzzoni - che è stato uno dei maggiori studiosi dello sviluppo dell’autonomia italiana nelle nostre scuole - quando dice: “Il modello italiano dell’autonomia è molto diverso da quello anglosassone dove nel consiglio di amministrazione sono rappresentati i proprietari o gli azionisti della scuola che possono anche intervenire direttamente sulle caratteristiche del processo formativo”. Il modello italiano di autonomia - Reguzzoni la definisce “autonomia di comportamenti” - salvaguardia l’unitarietà del sistema formativo ma aumenta la discrezionalità, per esempio, degli operatori scolastici delle singole scuole nella costruzione dell’offerta formativa. Di qui la riscoperta della funzione degli organi collegiali e una rivisitazione delle responsabilità di chi opera all’interno della scuola.

Ripensando agli organi collegiali, sarà necessario rendere maggiormente visibile la struttura decisionale della scuola e il sistema delle responsabilità sottostanti. Non si tratta tanto di riscoprire con il bilancino qual è l’esattissima composizione degli interessi negli organi collegiali ma forse conviene rendere trasparente la rappresentazione della domanda, quindi una sorta di scansione trasparente delle procedure: la domanda dei genitori, la domanda degli enti locali, la progettazione della scuola. È importante riscoprire l’elemento di trasparenza dei processi. Siccome un organismo di compensazione e di incontro ci deve essere, la sua composizione deve tener conto di tutti questi soggetti, con una identificazione chiara dei diversi ambiti. Anche la riforma amministrativa degli anni Novanta ci può aiutare in questo, nonostante si sia focalizzato sul dirigente scolastico una responsabilità quasi monocratica sui risultati della scuola - e di cui deve rendere conto a un altro organo monocratico che è il direttore generale il quale, a sua volta, deve rendere conto a un altro organo monocratico che è il ministro.

Perché è vero che il dirigente deve essere garante di questa filiera ma deve anche essere il cantastorie dell’autonomia della scuola, cioè deve riuscire a cogliere la domanda della comunità, le soluzioni originali che ci sono all’interno della scuola. Occorre allora rafforzare la dimensione della rete di responsabilità intermedia, una sorta di leadership diffusa culturale all’interno della scuola.

Vanno poi identificate con maggiore precisione alcune funzioni come quella della partecipazione che è cosa diversa dall’elaborazione progettuale, che è cosa diversa dalla gestione, che è cosa diversa dall’indirizzo e dal controllo.

Non voglio depotenziare il valore della responsabilità degli organi collegiali in favore di altri valori considerati più produttivi - efficienza, decisione -, ma una distinzione di queste funzioni va fatta. Per esempio, la partecipazione forse oggi deve recuperare un significato di informazione, di trasparenza, di conoscenze, per rappresentare bisogni. La partecipazione - che sa anche delimitare ambiti e soggetti - non dovrebbe perseguire prevalentemente gli obiettivi individuali, quanto quelli di interesse pubblico. In questo senso dobbiamo anche riflettere sull’idea che vi è un’utenza nella scuola che forse ha titolo a dire cose sul suo funzionamento, tuttavia il concetto di base è che la partecipazione può esprimere un interesse pubblico con protocolli di mediazione attraverso una logica di ascolto reciproco e una disponibilità al cambiamento. Per esempio, il problema della formazione dei genitori, di chi assume responsabilità negli organi collegiali, come ci possono aiutare le tecnologie - mi sembra strano che gli 11.000 presidenti di istituto italiani non siano in rete tra loro.

Il punto focale è quello della responsabilità. La responsabilità nella scuola dell’autonomia implica la rendicontazione delle azioni attraverso la trasparenza dei processi decisionali. Bisogna che ci sia una imputabilità delle attività a dei soggetti identificati. Di qui la rilettura delle responsabilità gestionali del dirigente scolastico. I compiti gestionali sono sottratti alla gestione sociale, ma allora dobbiamo trovare un punto di equilibrio tra una collegialità informale che si esprime nell’interlocuzione con associazioni o comitati e una collegialità sistemica, cioè con un processo decisionale basato sulla partecipazione.

La responsabilità comporta la riscoperta di spazi istituzionali e fisici per la partecipazione dei genitori che non sono solo quelli della concertazione e della mediazione all’interno di un consiglio di istituto; il quale dovrebbe assumere una funzione di regia leggera; cioè di divisione capace di dar conto di questa processualità partecipata che arriva alle decisioni.

La valutazione è un elemento che dà un senso complessivo, e allora nelle proposte di riforma degli organi e degli organismi di gestione i nuclei di valutazione devono essere affiancati ai processi di autovalutazione, per rendere concreta una capacità di regolare e migliorare i processi di formazione.

Riflettiamo su queste funzioni: partecipazione - e vedo qui l’idea della trasparenza, della massima apertura e dell’informalità -, elaborazione - e qui vedo una forte responsabilità degli operatori della scuola, gestione, indirizzo e controllo. Prima di misurarsi in un necessario percorso di possibile condivisione di uno strumento sulle regole della partecipazione all’interno delle scuole, credo sia necessario riflettere e chiarire a fondo sul senso della cultura delle regole, sul senso della partecipazione, sul rispetto dell’autonomia istituzionale della scuola a partire dalla distinzione di queste funzioni fondamentali e delle relative responsabilità all’interno della scuola autonoma.


Luciano Corradini

Vi è il momento dell’elaborazione, il momento della gestione e il momento dell’indirizzo, ma c’è prima qualcosa di più profondo che è dato dall’educazione. Cioè la partecipazione è uno dei fini dell’ordinamento - vedi art. 3 Cost. -, quindi una scuola non può fare il suo mestiere di istituzione della Repubblica se non si fa carico della partecipazione.

Barbieri ha sottolineato la distanza che esiste tra la legislazione del 1973-74 e la legislazione attuale. Vorrei richiamare come erano le cose prima del 1973 e perché si è arrivati a quel periodo. Nel 1973 era in vigore la legge delega n. 477 essenzialmente dedicata allo stato giuridico degli insegnanti. Ora, la materia del riordino degli organi collegiali si è inserita su quel testo per cui lo stato giuridico degli insegnanti non è stato più definito in termini di professionalità - e questo è secondo alcuni un guaio, secondo altri una fortuna - ma nel contesto di quella che è stata chiamata la comunità scolastica, la partecipazione o la gestione sociale: cioè l’insegnante è stato uno dei soggetti che operano nella scuola nell’ambito della collegialità.

Le parole chiave - comunità, partecipazione, gestione sociale - hanno tentato di fornire una legittimazione a questo processo e hanno tentato di superare le difficoltà proprie del 1968-70 che avevano concepito la scuola come spaccata in due: gli studenti e una parte degli insegnanti che volevano cambiare radicalmente la scuola o addirittura distruggerla, e la parte istituzionale. L’art. 1 del 416 - “al fine di fare della scuola una comunità che interagisce con la comunità sociale e civica” - serve per ristrutturare un mondo della scuola in relazione a una società che si avvertiva come spaccata. La scuola della fine degli anni Sessanta non era avvertita più come istituzione sociale positiva, bisognava decidere se salvarla o no.

Il Segretario generale della CISL Macario mi disse una volta: “O ci pensiamo noi sindacati a salvare la scuola, o tutto va per aria”. “L’Unità” aveva sette colonne in cui diceva: “O i decreti delegati o il caos”. Quindi si trattava di reagire di fronte a quella deriva che poi è diventata terrorismo, ma non tornando indietro bensì cercando di riconoscere i diritti e i doveri di tutti.

Parlando di gestione, l’ispettore Cerini ha distinto con molta chiarezza tra il momento dell’elaborazione, il momento della gestione e il momento dell’indirizzo, ma c’è prima qualcosa di più profondo che è dato dall’educazione. Cioè la partecipazione è uno dei fini dell’ordinamento - vedi art. 3 Cost. -, quindi una scuola non può fare il suo mestiere di istituzione della Repubblica se non si fa carico della partecipazione.

Negli anni Sessanta si combatteva contro la scuola perché non c’era la possibilità di parlare, di capire, di fare un’analisi della condizione dello studente e dei genitori. I genitori sono entrati quando c’erano le scuole occupate e volevano rendersi conto di cosa succedesse. Allora queste forze interne e poi esterne alla scuola cercarono di salvare una scuola in cui si rischiava di non capire più nulla, di non riuscire più a insegnare. I trent’anni dai decreti delegati in poi sono andati avanti con la sostanziale salvezza statica dell’ordinamento ma senza essere riusciti a promuovere il processo di riforme, tant’è vero che la riforma delle superiori e della formazione è ancora da fare.

Oggi abbiamo la scuola autonoma per cui il dirigente scolastico sulla base di questa autonomia funzionale può dire al Sindaco o il Presidente della Provincia di avere la stessa legittimazione costituzionale a occuparci delle persone che sono affidate alle nostre cure.

Come si realizza un’autonomia funzionale partecipata e a cosa serve questa partecipazione? Quella degli studenti resta intatta, vogliono capire dall’insegnante perché studiano queste cose, a quale titolo, in quali tempi, in quali modi, con quali valutazioni, quale cultura viene loro proposta dalla scuola e cosa possono dire loro. C’è il momento dell’iniziativa degli studenti che può diventare - come è diventata - distruttiva, facendo l’occupazione perché è un modo per sentirsi vivi e un modo per sentirsi nella scuola.

Nella Conferenza nazionale degli studenti si disse “Il nostro slogan è: essere scuola e non esserci solo dentro”. La scuola riesce ad essere educativa? Al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione dicemmo che sarebbe stato bene che ci fossero anche gli studenti perché sono la domanda e la verifica finale. Per evitare che ci sia soltanto una rinascita di partecipazione in piazza e che le sedi istituzionali siano deserte o mal presidiate è necessario trovare, sul piano dell’invenzione di una scuola possibile e buona, le occasioni di lavoro. Coloro che ci credono non vogliono appesantire inutilmente di speranze la vicenda partecipativa scolastica, ma credono che sia effettivamente utile per le persone che si mobilitano, per i valori che, attraverso l’interazione volta verso il successo formativo, si riescono a creare.

Lo Stato ha bisogno di una società civile viva, quindi si tratta di lavorare per dare spazio a una società civile e per aumentarla, altrimenti abbiamo i dirigenti generali lottizzati, i ministri che pro tempore fanno le loro scelte, chiamano le persone loro fedeli e basta, con la scusa che in questo modo si è più efficaci e più efficienti. Tra efficacia, efficienza e partecipazione non c’è un’insanabile contraddizione, bisogna trovare i livelli giusti per evitare perdite di tempo e per non essere causa di ostacoli ai processi partecipazione.


Leonardo Galli

Noi ci definiamo “l’oggetto misterioso”, “morto che cammina” a riprova di un grave fatto istituzionale di un organo collegiale che continua a essere in funzione senza il supporto amministrativo. Continuano ad arrivare circolari che dicono che dobbiamo fare il bilancio: bisogna pagare il telefono, addirittura sono arrivate le cartelle per la tassa della nettezza urbana. Il presidente è responsabile del patrimonio e di qualsiasi cosa avviene nel distretto scolastico.

Ringrazio l’Assessore Daniela Monteforte per questo incontro. All’istituto Galilei di Roma a livello di organi collegiali territoriali abbiamo avuto una parentesi abbastanza lunga nel senso che l’ultima convocazione a livelli di distretti è stata fatta dall’Assessore Capotorto. Pertanto non desta meraviglia quello che sta accadendo perché già avevamo visto come andavano le cose. Io sono presidente del XV Distretto scolastico di Roma, ma faccio parte anche del coordinamento nazionale dei presidenti dei distretti scolastici.

Noi ci definiamo “l’oggetto misterioso”, “morto che cammina” a riprova di un grave fatto istituzionale di un organo collegiale che continua a essere in funzione senza il supporto amministrativo. Continuano ad arrivare circolari che dicono che dobbiamo fare il bilancio: bisogna pagare il telefono, addirittura sono arrivate le cartelle per la tassa della nettezza urbana. Il presidente è responsabile del patrimonio e di qualsiasi cosa avviene nel distretto scolastico.

Allora o avete la decenza di chiuderli e ve ne assumete la responsabilità, oppure dovete mettere a disposizione i supporti amministrativi. C’è stata un’interrogazione dell’on. Publio Fiori di Alleanza Nazionale il 23 giugno 2003 che chiedeva come mai dal 1 settembre 2003 i distretti scolastici sarebbero rimasti senza personale pur continuando a funzionare. Non c’è stata alcuna risposta. Il 27 ottobre 2003 lo stesso Fiori ha fatto il sollecito alla sua interrogazione a seguito del quale vi è stata una circolare del MIUR ai direttori generali dicendo: “Arrangiatevi, nel senso di vedere caso per caso come potete risolvere la situazione senza però intaccare la norma della legge finanziaria”, con il risultato che in nessun distretto d’Italia i direttori generali hanno applicato quella circolare perché andavano contro la legge finanziaria.

Vi sono state altre interrogazioni parlamentari come quella del sen. Falomi, dell’on. Pasetto. Il 23 febbraio 2004 il Sottosegretario Aprea ha risposto all’on. Fiori. Egli richiama la famigerata circolare del 27 ottobre 2003: “Abbiamo dato incarico ai direttori generali di provvedere in merito, in attesa della riforma degli organi collegiali…”. Ma questo quando l’ufficio legislativo aveva già mandato ad Aprea la nota che era caduta la delega: “…che andranno a scadere nel settembre 2005”. Arrivati a questo punto, altro che morto che cammina!

Noi chiediamo che ci sia una assunzione di responsabilità da parte del Governo e della maggioranza parlamentare per mettere in condizioni questo morto che cammina di riprendere il cammino anche per salvaguardare le responsabilità personali dei presidenti di distretto.

Circa poi le proposte, mi ritrovo in quello che hanno detto i relatori e, per quanto riguarda i consigli locali territoriali, Barbieri ha fatto un ottimo lavoro. Fra l’altro parecchie delle funzioni enunciate da Barbieri dovrebbero essere affidate alle conferenze di servizio.


Alessandro Paino

Lo Stato può dettare criteri e principi ma non può provvedere a una gestione amministrativa facendo ormai parte di un corpo di funzioni la cui titolarità è della regione e pertanto da questo punto di vista costituiscono oggetto della potestà legislativa concorrente delle regioni. L’autonomia scolastica è un’autonomia funzionale, non politica. Esiste uno spazio in cui le istituzioni scolastiche possono tutelare la lesione delle loro attribuzioni impugnando non in via principale, ma in via incidentale. Vi è uno spazio che non può essere compresso né dalla legge statale né dalla legge regionale perché comprimerebbe la libera determinazione dell’autonomia scolastica.

Parlerò del significato e delle prospettive aperte dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 2004 intervenuta su due norme della finanziaria 2002 che riguardavano, l’una, la competenza alla determinazione degli organici nelle varie regioni attribuendo questo potere al direttore dell’ufficio scolastico regionale, l’altra, l’utilizzazione degli insegnanti all’interno delle scuole. Le norme di cui si discute sembrano apparentemente norme di minuta gestione della vita scolastica, in realtà implicano il rapporto fra i grandi scenari nei quali si iscrive l’organizzazione del sistema di istruzione: lo scenario dei rapporti fra Stato e regioni, lo scenario dei rapporti fra regioni e istituzioni scolastiche, lo scenario dell’apertura del ruolo dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Scenari che quindi attengono a un profilo assai significativo di valori e di questioni, al modo di esercitare l’autonomia didattica delle scuole, alla capacità di correlare le risorse - in questo caso la risorsa del personale - con le questioni riguardanti la programmazione educativa, alla capacità di assicurare un governo complessivo del sistema di istruzione.

In questo quadro, anche se non è titolare di potere normativo, non è estranea la Provincia perché intanto è già attributaria di funzioni ai sensi del Decreto Legislativo n. 112 del 1998 e da questo punto di vista la sentenza della Corte Costituzionale contiene indicazioni assai interessanti perché ci dice che il Decreto Legislativo n. 112 è in vigore da tempo mentre - secondo una prospettiva non ufficialmente predicata ma concretamente praticata - da parte del Ministero si assume che questo trasferimento di poteri non sia ancora operante. È tanto operante che la Corte Costituzionale ha preso il Decreto Legislativo n. 112 come strumento per effettuare il sindacato sull’esercizio del potere legislativo da parte dello Stato.

La sentenza contiene una indicazione sulla qualità e il valore dell’autonomia scolastica a mio avviso da prendere in considerazione; inoltre, contiene una prospettiva che implica un riconoscimento di grande rilievo dell’organizzazione dei grandi servizi pubblici. La Corte ha affermato l’illegittimità costituzionale di questa norma ma ha postergato la decorrenza di questa dichiarazione di incostituzionalità al momento in cui le regioni si sarebbero dotate degli apparati amministrativi per esercitare le funzioni ad esse attribuite. Dice la sentenza: “I diritti fondamentali vengono assicurati non solo attraverso l’attività normativa ma anche attraverso gli apparati che a questi sono preposti ad erogare”: si tratta del riconoscimento dell’importanza dei grandi servizi pubblici - scuola, educazione, sanità - legati direttamente ai diritti fondamentali.

L’impugnazione davanti alla Corte Costituzionale era un’impugnazione in via principale, cioè un’impugnazione con cui la Regione Emilia Romagna rivendica la violazione, da parte della legge statale, delle proprie competenze legislative riservate ad essa dal nuovo Titolo V della Costituzione, art. 117 nel testo introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.

Nella finanziaria 2002 sono presenti due norme: una che attribuisce al ministro il potere di dettare criteri per la formazione degli organici, una secondo la quale la determinazione degli organici negli ambiti regionali viene effettuata dal dirigente dell’ufficio scolastico regionale.

Vi è poi una norma che dà indicazioni per l’utilizzazione degli insegnanti all’interno delle istituzioni scolastiche e tende a fare in modo che gli insegnanti siano prioritariamente utilizzati per i completamenti di cattedra, il che - secondo la tesi della Regione Emilia Romagna - incide sulla qualità dei progetti perché se gli insegnanti devono completare le cattedre non possono essere dedicati alla progettazione.

La Regione Emilia Romagna denuncia l’incostituzionalità di queste due norme. La prospettazione è la seguente: la Regione è titolare del potere legislativo in materia di istruzione, pertanto, come dice l’art. 117 Cost., ha una competenza concorrente mentre quella dello Stato è limitata alle norme generali sull’istruzione oltre che ai principi fondamentali in relazione alla competenza concorrente. Attraverso queste norme, il legislatore attribuisce questo potere a un soggetto che potrebbe non essere più titolare di questo potere nel nuovo assetto, ma soprattutto mette la regione in condizione di depauperare la qualità delle istituzioni scolastiche sicché, quando la regione legifererà su questa materia, avendo il legislatore occupato tutti gli insegnanti e determinati gli assetti, troverà un vincolo indiretto all’esercizio della sua potestà legislativa in questa materia incidendo sulla qualità dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.

La prospettazione era ad un tempo ambiziosa e pericolosa. Ambiziosa perché l’oggetto sostanziale era quello della tutela delle autonomie scolastiche: le autonomie scolastiche sono patrimonio di tutti e pertanto lo Stato non può determinare un depauperamento del personale a danno degli altri soggetti istituzionali del sistema. Pericolosa perché prospettava un danno futuro, tant’è che l’Avvocatura dello Stato, accortasi della questione, ne eccepisce la futuribilità.

La Corte la registra nella parte in fatto ma nemmeno la esamina nella parte in diritto. Riferisce questa complessa questione a entrambe le norme e la scinde in due questioni diverse ma connesse. La prima verte sulla titolarità del potere di determinazione degli organici: esiste ancora questo potere? O meglio, lo Stato può legiferare in tema di determinazione degli organici in ambito regionale? La seconda questione verte sulla lesione o meno, da parte della norma, dell’autonomia scolastica.

Le risposte che la Corte dà a questi quesiti sono diverse: una va in senso positivo, l’altra va in senso negativo per la Regione. “Il potere dello Stato di legiferare in tema di istruzione non può più estendersi, dopo il Decreto Legislativo n. 112, a una materia che attiene alla gestione e alla programmazione del servizio come quella che riguarda l’attribuzione di questo potere a un proprio organo periferico, il capo dell’ufficio scolastico regionale”. Addirittura va oltre perché prospetta che questa funzione amministrativa non solo è disciplinabile con legge, ma in sostanza è ormai nella titolarità della Regione la quale deve dotarsi degli strumenti adeguati per gestire queste realtà.

Sulla seconda questione si pone il problema della legittimità della norma dal punto di vista dell’autonomia scolastica: la regione ha la legittimazione sulla tutela dell’autonomia scolastica?

Dopo avere posto l’interrogativo, la Corte dice che la lesione non c’è perché l’autonomia non significa che non ci possa essere una conformazione qualunque data dalle norme. Allo stesso tempo la Corte dà qualche indicazione sul contenuto di questa autonomia e pone un principio. Fa capire che l’autonomia è uno spazio garantito anche a certe condizioni nei confronti della legge sia statale sia regionale.

Passiamo alla prima prospettazione della Corte. Essa fa l’analisi dell’esistenza della legittimità del quesito posto dalla Regione Emilia Romagna, se cioè lo Stato abbia o meno il potere di legiferare. Ed è molto interessante capire come fa questa analisi perché il dato significativo è il modo con cui arriva all’esito positivo per la Regione. Per vedere se lo Stato ha potestà legislativa nella determinazione degli organici a livello regionale e se quindi può affidare a un proprio organo questo potere, la Corte va a esaminare l’esercizio delle funzioni amministrative. Per verificare se c’è stata invasione della sfera legislativa, prende come parametro la situazione determinatasi a seguito del Decreto Legislativo n. 112 che è uno dei decreti attuativi della legge n. 59 del 1997 che ha trasferito funzioni e compiti dal sistema statale al sistema regionale e locale anche in materia di istruzione. La legge ha trasferito funzioni amministrative, cioè funzioni che erano già disciplinate con legge.

In sostanza la Corte dice:

“Ai sensi del Decreto Legislativo n. 112 del 1998 la regione ha già il potere di disciplinare la programmazione dell’offerta formativa. I poteri di programmazione del servizio scolastico sono già nell’ambito delle competenze regionali.”

Qual è la chiave di volta che nel Dec. L.vo n. 112 distingueva il ruolo dello Stato, delle autonomie scolastiche, della regione? Era la nozione di programmazione e gestione amministrativa del servizio.

L’idea insita nel Dec. L.vo n. 112 era quella di dare alle istituzioni scolastiche il servizio tecnico dell’istruzione - cioè il servizio espletato dagli insegnanti, a regioni, province e comuni la programmazione e gestione amministrativa del servizio, cioè il quadro di riferimento generale del rapporto fra il servizio tecnico di istruzione - che è dato dalle scuole - nel quadro del contesto culturale, economico, sociale del territorio delle regioni. C’è la preoccupazione di salvaguardare l’autonomia dell’insegnamento legato all’autonomia della scuola e di utilizzare il concorso degli enti locali in tutte quelle funzioni che servono da implementazione del servizio e da introduzione all’interno delle politiche generali dell’istruzione: collegamento con il mondo del lavoro, con il mondo produttivo, con le realtà culturali e istituzionali.

Secondo la Corte questo potere di programmazione e gestione del servizio la regione ce l’ha già: se questo è vero è implausibile che questo potere sia stato depauperato dall’entrata in vigore della norma costituzionale che ripartisce la potestà legislativa in potestà concorrente delle regioni e norme generali sull’istruzione in capo allo Stato. Una volta affidato il potere di programmazione del servizio alle regioni, appare del tutto ragionevole che anche la risorsa strutturalmente legata alla programmazione - ossia la risorsa umana - venga gestita dal sistema regionale.

Pertanto lo Stato su questa materia può dettare criteri e principi ma non può provvedere a una gestione amministrativa facendo ormai parte di un corpo di funzioni la cui titolarità è della regione e pertanto da questo punto di vista costituiscono oggetto della potestà legislativa concorrente delle regioni.

Ci sono due profili da sottolineare in questa affermazione della Corte. La prima è che la Corte fa un adattamento del concetto di programmazione e gestione amministrativa delineato dal Dec. L.vo n. 112: tale decreto infatti mantiene allo Stato le funzioni in materia di personale, la Corte Costituzionale fa invece un passo in avanti perché considera la risorsa umana come inglobata nella programmazione e gestione amministrativa del servizio. “Una volta attribuita l’istruzione alla competenza concorrente, il riparto posto dall’art. 117 postula che, in tema di programmazione scolastica e gestione amministrativa del servizio, compito dello Stato sia solo quello di fissare principi, e la distribuzione del personale tra le istituzioni scolastiche che certamente non è materia di norme generali sull’istruzione riservata alla competenza esclusiva dello Stato in quanto strettamente connessa alla programmazione e alla rete scolastica - che è funzione tuttora di competenza regionale - non può essere scorporata da questo”.

Quindi la Corte fa due operazioni: per un verso dichiara la competenza regionale su questa materia, per altro verso amplia, novandola, la nozione di programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico includendovi anche la gestione del personale.

C’è il problema delle risorse finanziarie, e lì c’era un obiezione radicale perché la disciplina della provvista finanziaria del sistema regionale e locale è riservata, dall’art. 119 nuovo testo della Costituzione, ad alcune norme dette di “federalismo fiscale”. Ora, il fatto che non sia attuato il federalismo fiscale a parere della Corte non può essere ostativo alla pronuncia di incostituzionalità, semplicemente ne posterga l’efficacia a una fase successiva che però non è quella del federalismo fiscale ma una fase in cui le regioni si doteranno di queste funzioni amministrative.

Quali sono sul piano immediato le conseguenze di questa affermazione della Corte Costituzionale? Lo Stato non è più titolare di questo potere anche se continua a esercitarlo fino a quando le regioni non si doteranno degli apparati necessari, ma lo esercita come supplente delle regioni e non più come titolare.

Questa decisione ha alcuni rilievi di grande importanza. Innanzi tutto, l’architettura istituzionale del Ministero e in particolare quella periferica non trovano più fondamento costituzionale, cioè la presenza degli uffici scolastici regionali sul territorio non è più giustificata dal quadro normativo e costituzionale che esiste adesso. La Corte in pratica dà una legittimazione agli uffici scolastici regionali fino a quando non saranno costituiti.

In secondo luogo, questa sentenza fornisce contenuti significativi sull’esercizio della potestà legislativa concorrente delle regioni. A una prima lettura dell’art. 117 la potestà legislativa in materia di istruzione sembra una sorta di busillis tra norme generali, principi fondamentali, competenze concorrenti e competenze esclusive perché il nuovo Titolo V prevede che per le norme generali sia competente lo Stato, che l’istruzione sia materia di competenza concorrente, che sulla materia di competenza concorrente lo Stato determini i principi fondamentali, che alcune materie - istruzione e formazione professionale - siano competenza esclusiva del sistema regionale.

In questo quadro certamente complesso c’è un’indicazione di grande interesse. La Corte dice: “Ai fini della presente decisione non è necessario definire interamente le rispettive sfere di applicazione e il tipo di rapporto tra norme generali sull’istruzione e principi fondamentali (le prime di competenza dello Stato e i secondi destinati a orientare le regioni chiamate a svolgerli). Nel complesso intrecciarsi, in una stessa materia, di norme generali, principi fondamentali, leggi regionali e determinazioni autonome delle istituzioni scolastiche…”: segnalo questo inciso perché già, accanto alle fonti normative primarie, compare lo spazio libero dell’autonomia scolastica, segno del riconoscimento costituzionale del valore dell’autonomia; se non ci fosse tale riconoscimento, il riferimento alle determinazioni autonome delle scuole unitamente alle fonti legislative statali e regionali non sarebbe stato possibile. “…si può assumere per certo che il prescritto ambito di legislazione regionale sta nella programmazione della rete scolastica”.

L’ambito della competenza legislativa concorrente delle regioni è la programmazione del servizio e cioè l’organizzazione del servizio non solo nei suoi aspetti meramente burocratici ma nei suoi collegamenti strutturali con il sistema di relazioni, di politiche istituzionali, di valori che fanno l’in sé di quella regione.

Questo è uno spazio di grande interesse perché per un verso appare più tranquillizzante sotto il profilo della struttura unitaria: l’ordinamento scolastico inteso come ordinamento degli studi è e rimane materia generale nel senso che la norma generale deve dettare un ordinamento che vale.

È chiaro che la questione dei titoli di studio è e rimane una questione di norma generale, è chiaro che i principi generali che riguardano lo statuto della libertà degli insegnanti devono valere per tutti. Ma vale un discorso più articolato per la programmazione intesa come criterio di collegamento tra il servizio e le politiche regionali, lo sviluppo regionale, il sistema dell’occupazione della regione. È qui che occorre una politica per l’istruzione che sopperisca alle difficoltà avutasi nel nostro paese nell’inserire la funzione di erogazione di servizio in un progetto di sviluppo generale.

Un altro profilo riguarda l’autonomia scolastica. La Corte esamina il comma 4 nella parte riguardante l’utilizzazione degli insegnanti. Secondo la Corte la questione non è fondata: “È evidente che questa disposizione enuncia un principio al quale devono attenersi le istituzioni scolastiche ancorché dotate di autonomia”.

In realtà si tratta di una norma che tende a contenere la spesa per gli insegnanti. “Non vi è però lesione delle attribuzioni legislative regionali né, come ipotizza la ricorrente, dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, a prescindere dalla questione se una regione possa censurare leggi statali ritenute lesive dell’autonomia scolastica”. Se allora la regione non ha questo potere, chi ce l’ha? Il nuovo testo del Titolo V attribuisce il potere di contestare la potestà legislativa a Stato e regione; lo stesso Titolo V però dice che la repubblica si compone di stato, regioni, province, comuni e città metropolitane.

Vi è quindi il dibattito se il sistema dei conflitti non si debba adeguare a questo pluralismo istituzionale presente all’interno del nuovo quadro costituzionale.

Io penso che l’autonomia scolastica sia un’autonomia funzionale, non politica e che probabilmente esiste uno spazio in cui le istituzioni scolastiche possono tutelare la lesione delle loro attribuzioni impugnando non in via principale, ma in via incidentale.

Interessante è vedere che spazio dà all’autonomia: “A prescindere da questa questione, è assorbente il rilievo che tale autonomia non può risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione, ma esige soltanto che a tali istituzioni siano lasciati adeguati spazi di autonomia che le leggi statali e quelle regionali, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare”.

Questa è una frase di grande importanza perché pone una riserva di autonomia a favore delle istituzioni scolastiche: c’è uno spazio che non può essere compresso né dalla legge statale né dalla legge regionale perché comprimerebbe la libera determinazione dell’autonomia scolastica.

Le piste di applicazione di questo criterio sono evidenti: leggendo la riforma della legge n. 53 del 2004, si notano molti dubbi che alcune disposizioni comprimano questo spazio dell’autonomia scolastica; ora, questa affermazione della Corte offre un implicito riconoscimento dell’impossibilità che certe realtà possano essere compresse legittimamente con il potere legislativo statale.

Ultima questione è quella del riconoscimento del valore dell’amministrazione. Nel momento in cui la Corte Costituzionale posterga nel tempo la decorrenza dell’entrata in vigore della dichiarazione di incostituzionalità al momento in cui le regioni si doteranno degli uffici e degli apparati, fa un’affermazione di principio rilevante che nel mondo dei costituzionalisti sta facendo discutere. La Corte dice: “Quel principio di continuità che questa Corte ha già riconosciuto operare sul piano normativo nell’avvicendamento delle competenze costituzionali dello Stato e delle regioni e in virtù delle quali le preesistenti norme statali continuano a vigere nonostante il mutato assetto delle attribuzioni fino all’adozione delle nuove leggi regionali, deve ora essere ampliato…”. Questo principio di continuità affinché il sistema istituzionale continui a operare è soprattutto legato ai diritti fondamentali ed era sempre stato riconosciuto per le norme legislative. Prosegue la Corte: “…ampliato per soddisfare l’esigenza di continuità non più normativa ma istituzionale (e cioè gestionale amministrativa) giacché soprattutto nello stato costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme ma anche di apparati finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali”.

Quei sistemi organizzativi legati all’erogazione di servizi pubblici essenziali che intercettano diritti fondamentali devono essere modificati ma non possono subire o tollerare interruzioni perché corrispondono a un diritto fondamentale del cittadino.

Ci sono qui due grandi riconoscimenti: il primo, del valore della funzione amministrativa, il secondo, del servizio pubblico di istruzione che si lega a un diritto fondamentale.

Se questo è quello che si può leggere dalla sentenza della Corte, il resto appartiene allo scenario del futuro, cioè è chiaro che la Corte lancia una serie di indicazioni che aspettano di essere raccolte.

Questa sentenza, per un verso, contiene un implicito - ma a mio avviso chiaro - invito all’amministrazione statale a cominciare a progettare la sua riprogrammazione secondo le nuove funzioni, per altro verso, lancia alle regioni - come titolari delle potestà normative - ma anche a tutti i livelli di governo previsti nel Dec. L.vo n. 112 l’invito ad attrezzarsi per esercitare queste funzioni.

Questo significa, per esempio, che le province che hanno già quei poteri che sono legati al Dec. L.vo n. 112 devono non solo attrezzarsi per esercitarli materialmente ma devono già pensarli nella prospettiva della programmazione generale del servizio cominciando a elaborare criteri che colleghino il sistema delle province con il sistema regionale da una parte e con il sistema delle istituzioni scolastiche dall’altra parte, in modo che questo quadro sia non solo partecipato democraticamente ma anche efficace e cioè capace di venire incontro a bisogni veri e non a bisogni rappresentati solo sulla carta.

Da questo punto di vista è decisivo, a mio parere, il rapporto con le istituzioni scolastiche: i dirigenti scolastici devono interloquire con questo sistema perché faccia presente cosa può dare e per altro verso le scuole possano trovare la loro missione nel rapporto con questo tipo di sistema.

Si tratta di una grande opportunità che suscita grandi entusiasmi ma potrebbe essere delusa se alle cose non seguono i fatti. Nella vita istituzionale succede lo stesso della vita politica: se gli spazi non si occupano qualcun altro li occuperà.


Marcello Vigli

La scuola non è un pezzo della pubblica amministrazione, ma un pezzo delle istituzioni della Repubblica. Pertanto il dirigente va ripensato in maniera radicalmente diversa: della collegialità del collegio dei docenti va recuperata la dimensione della dirigenza scolastica.

Faccio parte dell’associazione che si chiama “Per la scuola della Repubblica” perché nel momento in cui si è parlato contro lo statalismo e la scuola di stato per contrapporvi una scuola autonoma, noi ci siamo interrogati su questo problema: forse, si parla male della scuola di stato perché non si è approfondito cosa di nuovo la Costituzione ha portato nella forma Stato?

Sono stato molto contento di sentir parlare della scuola come istituzione dello Stato, di sentir parlare di un’autonomia funzionale e soprattutto di sentir raccordare il discorso dell’autonomia con il discorso del 1973-74. È un’opera di pulizia nei confronti di tante polemiche sull’autonomia. La nostra è un’autonomia che nasce da un’esperienza diversa da quella dei paesi anglosassoni.

Si è parlato di autonomia istituzionale, funzionale, non territoriale, pertanto la scuola si avvicina al territorio per esercitare la funzione che la Costituzione dà alla scuola della repubblica, cioè la funzione di avere come committente non la famiglia, ma la società.

È la società in quanto tale che paga affinché la scuola eserciti a livello locale la funzione di essere terza non solo nei confronti della pubblica amministrazione o degli enti locali, ma anche nei confronti della comunità locale e alla famiglia: cioè esercitare la stessa funzione che esercitano gli organi della repubblica.

Sulla base di questa ipotesi, indubbiamente ci sono alcune cose da ripensare. Esiste un’autonomia della scuola? Perché non è il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione l’organo centrale dell’autonomia? È questo che garantisce alla singola scuola la possibilità di non essere schiacciata dall’ente locale? Il referente del dirigente scolastico non è il Ministero, ma un organo istituzionale che permette di ricordare questa funzione istituzionale.

Se è una istituzione, dobbiamo coglierne la specificità e invece la riforma delle autonomie si è fatta pensando che la scuola sia un pezzo della pubblica amministrazione. Quando si è trattato di dare uno status al primus inter pares - il preside, lo si è chiamato dirigente scolastico trasferendogli le competenze di un qualsiasi ufficio. Ma non è così che si doveva fare.

La scuola non è un pezzo della pubblica amministrazione, ma un pezzo delle istituzioni della Repubblica. Pertanto il dirigente va ripensato in maniera radicalmente diversa: della collegialità del collegio dei docenti va recuperata la dimensione della dirigenza scolastica.

Il problema oggi è quello di profittare dei guai prodotti dal modo di interpretare o non interpretare le riforme fin qui fatte, per capire quali siano le altre vie possibili.

 


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