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SICOMORO E CARCERE

 

Perché non ho mai visto alcuno salire sull’albero di sicomoro?

Nessuno si arrampica sul sicomoro per tentare di guardare nel mare sommerso al di là del muro di cinta di un carcere.

Non c’è traccia del sicomoro né di Zaccheo quando si parla di carcere, di pena, di lacerazioni inferte agli altri e a se stessi.

Ho pensato al sicomoro di Zaccheo, forse perché c’è bisogno di miracoli, di speranza, di parole di bene, chiare e non buoniste.

In questi giorni c’è vento di scandalo intorno al carcere di San Vittore: sovraffollato, carente di personale di Polizia Penitenziaria, di educatori, psicologi, mancante di fondi per progettare davvero pene umane e speranze possibili, per realizzare lo strumento cardine per un effettivo ripensamento culturale da parte del detenuto, cioè il lavoro, senza il quale non esiste rieducazione, risocializzazione, né trattamento né osservazione.

Ho pensato al sicomoro, perché ha consentito al pubblicano corrotto di elevarsi a persona, di alzarsi dalla sua bassa statura morale.

Il carcere avrebbe bisogno non di cerchi concentrici, belli da disegnare, da spiegare, da donare in tante parole valigia, ove tutto può stare per non edificare niente, bensì di una speranza per ogni persona detenuta, speranza che nel dolore e nella sofferenza di una perduta libertà possa coesistere la possibilità di una dignità da riacquistare e una rinascita da intraprendere.

Ma non c’è traccia del sicomoro nei pressi di questa sorta di terra di nessuno, quale è il carcere.

Il sicomoro è albero di terra che ricorda il sacrificio più grande: allora perché, insieme, non tentiamo di riconoscerne la presenza, nei perimetri che allontaniamo dalla nostra coscienza?

Ho ricordato Zaccheo, perché ha saputo "trasgredire" nella rinuncia ai beni della conformità e del potere, e pensare a lui significa consentire al cuore di rimuovere il filo spinato della diversità, delle regole della strada, dei disvalori che imperversano al di là dell’alto muro di cinta.

Il sicomoro e Zaccheo, mentre a San Vittore si muore.

Il suicidio di un detenuto, di due, dieci, mille, di altrettanti che si feriscono per affermare una presenza, per elemosinare un’attenzione.

Il carcere di San Vittore non è l’unico buco nero, altri ve ne sono, ma è come se un " velo di Maja" impedisse di coglierne la drammaticità. E’ come se in questi luoghi ,sempre più spostati, spinti, relegati nelle periferie, lontani dal vivere civile, regnasse l’assoluta illusorietà per una prospettiva di risalita dall’abisso, come se la trasformazione della società camminasse pari passo con la negazione di fiducia e speranza per l’uomo detenuto.

Ho pensato al sicomoro e a Zaccheo, riflettendo sulle tante spiegazioni per l’ennesimo suicidio in carcere.

Proprio perché quel morire "ordinato", silenzioso, distaccato, quasi a non voler disturbare alcuno, non è un morire che la vita rifiuta, che la vita disattenta ha disatteso,è un morire senza accuse, da uomo in colpa, ma con l’ostinazione folle imposta dalla condizione. E’ la condizione a sconfiggere l’uomo. Quella condizione che individualmente si è scelta, ma che altri hanno reso ancor più insopportabile, non solo per gli spazi inesistenti, per i supporti umani carenti, ma per una insistente e reiterata operazione, che ha circondato il pianeta carcere con una recinzione di disattenzione,di non pietas, nullificando la possibilità di una riparazione condivisa.

Non vedo alcuno salire sul sicomoro, e sarebbe bello intravederne solo il tronco.

Zaccheo non è quel morto impiccato, non è neppure in cella con me, ma sarebbe bello cominciare a conoscerlo, nello sconosciuto che ci viene incontro, persino in una prigione.

 

Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e
tutor Comunità "Casa del Giovane" di Pavia
Novembre 2001


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