Sull'arte sacra

di Gian Luigi Verzellesi

 

Chi voglia riaffrontare l’argomento dell’arte sacra (nel clima dell’ecumenismo che progredisce lentamente), non può prescindere dal riscontro delle sue varie specie: come ha fatto uno studioso, Titus Burckhardt, nel suo libro (tradotto da Elena Bovo, edito da Rusconi) su L’arte sacra in oriente e in occidente, vista secondo i princìpi e i metodi delle cinque grandi tradizioni dell’induismo, del cristianesimo, dell’islamismo, del buddismo e del taoismo.

Queste tradizioni offrono un’esemplificazione vastissima ma non esaustiva: perché l’arte, obbediente allo spirito del sacro che la sorregge, è cresciuta, cresce e crescerà "dove vuole" - al di là delle cinque tradizioni più note, anche nelle culture meno studiate, o addirittura snobbate o sottovalutate, da osservatori talora dottissimi, ma condizionati dalla loro particolare visione settoriale, che oggi spesso si proclama europeistica, o eurocentrica, come se l’europeismo fosse davvero una categoria di giudizio e non un criterio di comodo rilanciato come etichetta di moda.

Se rivolgiamo lo sguardo agli sviluppi della tradizione cristiana, è innegabile che saltino all’occhio le differenze tra la visione del sacro vetero-testamentaria, cattolica, ortodossa, protestante: quattro paradigmi diversi, che implicano diverse premesse dottrinarie, ora sfavorevoli ora favorevoli alla visualizzazione del sacro per mezzo di immagini. Divieti sono frequenti nell’antico Testamento; il pericolo dell’iconolatria (cioè di ridurre le icone a idoli) su cui insistono gli iconoclasti spiega le riserve dei protestanti e anche di molti cristiani (S. Agostino considera la pittura superflua e pericolosa). "E’ difficile stabilire - precisa Mario Re - chi, tra sostenitori e avversari delle icone, abbia innovato rispetto alle tradizioni della Chiesa". Ma è certo che il primato assoluto della Parola, di matrice veterotestamentaria, fu riconsiderato al secondo concilio ecumenico di Nicea del 787, in cui si stabilì che la Parola e l’Immagine sono per i cristiani cattolici e ortodossi della stessa importanza.

Durante la quinta sessione di quel concilio, un’icona venne collocata in mezzo alla sala in cui si svolgeva l’assemblea, là dove per tradizione erano stati esposti i Vangeli. E a conclusione della settima sessione, il patriarca Tarasio, direttore dei lavori conciliari, poté proclamare che "i Padri avevano estirpato l’eresia seminata dal diavolo" e sostenuta dagli iconoclasti, tenacemente avversi alle figure sacre.

Nel 1987, le conclusioni del concilio di Nicea, ispirate alla teologia di S. Giovanni Damasceno, sono state ribadite e condivise sia dal Patriarca di Costantinopoli, sia dal nostro Papa, per il quale "è la dottrina stessa definita da quel concilio riguardo alla venerazione delle icone nelle Chiese, che merita un’attenzione tutta speciale; per le ricchezze spirituali dei suoi frutti e anche per i postulati che pone nel campo dell’arte sacra". In realtà, questo riconoscimento aperto del pontefice basta a sollecitare l’attenzione sugli atti del concilio del 787, finalmente tradotti (nelle parti di maggiore interesse per la disputa sulle immagini) e pubblicati in un libro intitolato Vedere l’invisibile (Aesthetica Edizioni Palermo), che offre un’occasione preziosa per riesaminare "la questione dell’immagine nella cultura occidentale" riaffrontata a Nicea e purtroppo - nei moderni studi di estetica - "sostanzialmente elusa o addirittura vanificata, stemperandosi entro un sapere esclusivamente storico-artistico". Queste nitide precisazioni di Luigi Russo, presidente del Centro internazionale di studi di estetica palermitano, rispondono a un’esigenza di fondo: quella di mettere in luce che le immagini sacre di cui parlano i padri iconofili di Nicea - inclini a salvaguardare la più genuina liturgia ortodossa aderente alle Scritture - sono fondamentalmente diverse dalle profane (anche di soggetto religioso) della tradizione occidentale paganeggiante.

Su questa differenza, nel nostro secolo, hanno insistito teologi autorevoli come P. Florenskij (v. Le porte regali, edito da Adelphi) e P.N. Evdokimov (v. Teologia della bellezza, delle Edizioni Paoline): concordi nel rilevare che la "pittura di icone come espressione della cultura ecclesiale" rende visibile simbolicamente il "mondo degli archetipi, delle essenze supreme, sovracelesti"; l’icona "non è un’opera d’arte autosufficiente, bensì un’opera testimoniale" da accogliere come "rivelazione del sacro" (Florenskij). Evdokimov, nel suo libro pieno di fervore religioso, non nega che - quando esce dal regime paganeggiante - "l’arte libera può coincidere con l’icona - come una tela di Rembrandt"; ma, nel capitolo su L’arte moderna alla luce dell’icona, rileva che "oggi l’arte cosiddetta sacra che si trova nelle chiese d’occidente, è la più povera della dimensione del sacro" e riscontra - in sintonia con Sedlmayr - che l’arte delle avanguardie novecentesche (tranne eccezioni molto rare) risente del processo di secolarizzazione, agnostico o di marca nichilista: ricerca l’arte per l’arte e non ha nulla a che fare col sacro così come si manifesta nelle icone o nella poetica di Ruskin (in cui "il sentimento religioso ha diretto - come notava Proust - quello estetico").

"Si può sentire - si chiede Evdokimov - il desiderio di pregare davanti al quadrato di Malevic?" E’ una domanda che si può ripetere per innumerevoli altri artisti delle più varie tendenze. A differenza di quella delle icone (che raggiunge un vertice con Rublev, artista monaco russo, studiato a fondo da Alpatov, Grabar, Lasareff, e commentato anche nel libro di Evdokimov), l’arte contemporanea novecentesca non ha ricercato la Bellezza etico-estetica (che secondo la profezia di Dostoevskij "salverà il mondo"): ha coltivato l’estetica del brutto di ogni specie e (specialmente nella seconda metà del secolo) si è ridotta a segno ossia a tracce prive di significato, librate sulla propria insignificanza, o (negli ultimi decenni) beate di crogiolarsi, come banderuole frenetiche della modernizzazione, nel culto ossessivo del virtuale con tutti i suoi spettacoli, effimeri e rumorosi: ma (come sottolinea anche Ratzinger, nel nono capitolo del suo lucido Rapporto sulla fede, delle Edizioni Paoline) così poveri di "spazio per il sacro", in cui possa ricrescere la "speranza cristiana"... A chi tema infine - secondo un pregiudizio persistente - che le prescrizioni conciliari, ribadite a chiare lettere a Nicea, siano troppo oppressive e destinate a produrre solo "similarte" - si potrà obiettare con le parole di Gide, che l’arte vera implica sempre una profonda obbedienza: "nasce dalle costrizioni e muore di libertà" disanimata.

 

Destinata significativamente "a quanti con appassionata dedizione cercano nuove epifanie della bellezza per farne dono al mondo", la lunga Lettera, che il Papa ha rivolto agli artisti, è sorretta da una vena di ottimismo sapiente e benefico, da cui proviene l’invito a riprendere "quel fecondo colloquio della Chiesa" con è gli uomini dell’arte che per molti secoli "non si è mai interrotto". Arte e religione - precisa il Pontefice - sono connesse e interattive: l’artista come artefice "dà forma e significato" a una materia preesistente imitando Dio, che ha creato il mondo dal nulla. Tra la capacità di agire "secondo le esigenze dell’arte" e quelle della morale, c’è una relazione profonda, come "avevano ben capito i Greci": in particolare Platone, che nel Filebo dice che "la potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello". L’artista cristiano deve sviluppare il suo talento "a servizio del prossimo e dell’umanità": "c’è dunque un’etica, anzi una spiritualità del servizio artistico" che si configura come obbedienza alla vocazione, al lavoro formativo come "giusto criterio delle realizzazioni", non come "ricerca di gloria fatua". Anche l’intento di rendere visibile il divino è stato reso possibile grazie al superamento del divieto veterotestamentario: facendosi uomo, il Figlio di Dio "ha svelato una nuova dimensione della bellezza" e la sacra Scrittura divenuta (come diceva M. Chagall) un meraviglioso "atlante iconografico".

Nel settimo paragrafo della Lettera, il Papa rievoca l’ "aspra controversia passata alla storia come lotta iconoclastica" e ricorda che al Concilio ecumenico di Nicea del 787, cattolici e ortodossi, di comune accordo, riconobbero "la liceità delle immagini e del loro culto" autorizzando la raffigurazione, "come evocazione sensibile del mistero" dell’Incarnazione, a pari titolo della Parola. Nei paragrafi seguenti, la Lettera tratteggia le varie splendide fasi dell’arte cristiana, dal Medioevo al Rinascimento, alle meraviglie architettoniche del Bernini e del Borromini. E quindi accenna al "nuovo clima degli ultimi secoli" in cui "si è progressivamente affermata una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui". Sugli sviluppi dell’arte secolarizzata ed eversiva del secolo che sta per chiudersi, la Lettera non indugia in dettagliate analisi o bilanci sommari: come quelli che si possono leggere nelle pagine di critici d’arte come Sedlmayr (v. La morte della luce, ed. Rusconi) o di teologi come Evdokìmov o Florenskij. Per questi ultimi, già con la fine del romanico "l’Occidente si distacca dall’Oriente" e l’arte sacra, secolarizzandosi, diviene "sempre più autonoma e soggettiva" lasciando "la sua biosfera celeste" ... Il Papa guarda al futuro, auspica una nuova alleanza con gli artisti perché "questo mondo nel quale viviamo - come hanno riconosciuto i Padri del Concilio Vaticano II - ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione", che il benessere sorretto dalle tecnologie più sofisticate non riesce a rimuovere: perché è "nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte" che sfuggono alle scienze umane. Nella conclusione della Lettera, l’augurio di una "nuova alleanza" tra arte e Chiesa è fatto ricordando la frase profetica di Dostoevskij ("la bellezza salverà il mondo"), che si legge nell’Idiota ossia nel romanzo scritto con l’intento di "raffigurare un uomo positivamente bello", come Cristo nel Vangelo di Giovanni. In quella frase, Dostoevskij, portentoso psicologo, indicava agli uomini del suo tempo la via stretta per uscire dalle strettoie devastanti del nichilismo (descritte veridicamente nelle pagine dei Demoni): per opporsi al progressivo sradicamento della cultura europea dalle radici cristiane, che ha prodotto la "patologia del moderno" (Bodei). Dunque, la bellezza di cui il Papa auspica la rinascita con le parole di Dostoevskij ha ben poco a che fare con le forme dell’immaginario novecentesco svincolato dall’etica e incline all’"apologia dell’intemperanza" (Weil) e dell’insensatezza.

Ogni lettore attento alla lettera capisce che il passaggio dall’arte profana (esaminata da E. Zolla nella Storia del fantasticare, ed. Bompiani) a quella sacra, considerata dal Pontefice come "vertice dell’arte religiosa", implica un vigoroso impegno controcorrente e non una frettolosa adeguazione alle esigenze di una religiosità di facciata, molto lontana dalla "nuova poetica della fede" invocata da Luzi, lontanissima dalla meditazione di von Balthasar sul bello aperto al divino. In parole povere, non si può scordare che gli autori delle icone (a cominciare da Rublev) sono monaci, obbedienti a precise prescrizioni tecniche e teologiche, dettagliatamente descritte da Florenskij. Si potranno, è ovvio, seguire altri dettami, consoni all’arte sacra di diversa specie. Ma la nuova dimensione della bellezza, connessa al messaggio evangelico, può essere raggiunta da artisti succubi della secolarizzazione? E può essere interpretata da interpreti che siano anche dottissimi ma abbastanza somiglianti a quel maestro della critica d’arte che (secondo G. Contini) era "assolutamente privo del senso del sacro"?

 

Nel dibattito attuale sull’arte sacra, poche voci possono orientarci meglio di quella in cui si sente vibrare - come diceva Papa Giovanni XXIII - l’"anima" di Simone Weil (1909-1943). Nei quattro Quaderni (editi da Adelphi a cura di Giancarlo Gaeta), si legge che "in tutto ciò che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello c’è come una specie di incarnazione di Dio": "quindi tutta l’arte di prim’ordine è per essenza religiosa" in quanto "testimonianza in favore dell’Incarnazione. Una melodia gregoriana testimonia quanto la morte di un martire" (III, 120).

Discende dalla cultura greca la tendenza a ritenere che "come c’è un amore divino e un amore demoniaco, così c’è anche un’arte demoniaca": secondo Simone Weil "una gran parte della nostra arte è demoniaca" (III, 125). Per quanto possa essere suggestiva, le sfugge "la dolcezza della natura che "nessuna arte demoniaca può imitare" perché "non conosce altra dolcezza che la voluttà".

"Il carattere essenziale della prima metà del secolo XX è l’indebolimento e quasi la scomparsa della nozione di valore. Il dadaismo, il surrealismo sono i casi estremi. Hanno espresso l’ebbrezza della licenza totale" (I, 68). Lo svincolo dell’estetica dall’etica ha prodotto la tendenza a considerare "lo sforzo verso il bene" come qualcosa che conta quanto lo sforzo verso il male: la costruzione organica dell’opera è risultata meno attraente della decostruzione, che si è configurata come anti-arte, volta a desublimare il valore artistico. Così si è scordato che "l’artista di genio non colloca Dio nell’intenzione della sua arte, ma nei procedimenti stessi della sua tecnica" (III,332). E dunque non mira a sfoggiare disarmonie violente, stranezze sconvolgenti, ma a conseguire quella dolcezza "che è più forte" del suo contrario, e si raggiunge "al fondo della sofferenza".

Pochi pensatori hanno insistito come la Weil sull’importanza dell’attenzione: fondamentale per "lo sviluppo della facoltà di contemplazione" (III, 333), senza la quale la bellezza invocata non può rinascere e l’arte si riduce a segno frenetico o a una piccola insensatezza attraente. La rivalutazione della tecnica, come lavoro al servizio dell’ispirazione, è importantissima: "la tecnica dell’artista autentico è tecnica trascendente" (III, 280) cioè volta a incarnare l’immagine mediante una lavoro paziente e rigoroso. "Il poeta produce il bello mediante l’attenzione fissa a qualcosa di reale" (III, 132): "anche le attività in apparenza più libere hanno valore solo nella misura in cui imitano il rigore, lo scrupolo proprio del lavoro" che compie l’artigiano provetto: senza questo modello artigianale "sprofonderebbero nel puro arbitrio. O finirebbero - così si legge nelle Riflessioni del ’34 - nella condizione di tanta arte che "non esce dal regno delle ombre" racchiusa com’è "nei giochi della vita interiore o in quelli dell’avventura e degli atti gratuiti"(114). All’occhio penetrante della Weil, lo sviluppo dell’arte figurativa novecentesca svela "un’apologia dell’intemperanza", che attesta come "la vita moderna è in balìa della dismisura", che "invade tutto" (I, 164) a scapito della qualità, sempre più rara.

Dall’oppressione sociale (descritta nelle Riflessioni) l’arte sfugge come "reazione individualistica" esasperata e velleitaria ... In questa critica radicale, la Weil è molto vicina a Tolstoj, potente sostenitore del "senso della misura", e a Dostoevskij, magistrale indagatore d’ogni specie di nichilismo corrosivo. Non meno di questi due grandi predecessori, la scrittrice francese (ammirata da Camus, Eliot, Marcel, Maritain, considerata da Bo "una delle intelligenze più alte e pure di questo secolo") ha identificato la bellezza con la purezza e con la perfezione. "È falso - afferma - che non vi sia rapporto" fra la bellezza, la verità, la giustizia: "più che un rapporto, vi è un’intimità misteriosa". "Se vi sono geni, la cui genialità è tanto pura da essere prossima alla grandezza dei santi più alti, perché perdere il proprio tempo ad ammirare gli altri?" Questa domanda (v. La prima radice, mirabile progetto di ricostruzione dell’Europa su base cristiana) potrà risultare inaccettabile ai sostenitori del primato dell’immaginazione, così come si esibisce in innumerevoli opere d’arte novecentesca. Ma il più accreditato studioso dell’impero dell’immaginario, Jean Starobinski, ci invita a non dimenticare che l’immaginazione non è mai autonoma, ma sempre vincolata a un comportamento, "guidata da un fattore affettivo o etico, e orientata positivamente o negativamente rispetto a un dato sociale". Oggi la tolleranza degli estri dell’immaginario è senza limite. Dall’iconoclastia di certe culture siamo passati all’iconolatria più indiscriminata. Di fronte all’opera, ci si lascia andare allo strapotere dell’immaginario che - relegato e protetto nelle mostre - ci allontana dalla realtà effettuale, grigia e indesiderabile. Al gusto di rilevare l’autonomia feconda delle grandi opere è subentrata la consuetudine di abbandonarsi alla pigra deriva del fantasticare, che rompe i rapporti col mondo, con la storia, e sospinge verso l’estetismo o verso i prodotti dell’Estetica del brutto teorizzata da Rosenkranz.

Ma la risoluta domanda della Weil - per quanto sia rimossa o snobbata - si ripresenta ogni volta che si riapre il dialogo sull’arte sacra. L’artista cristiano non può ridursi a "un cembalo squillante" o ripiegare sul mito di Narciso, o abbandonarsi alle mere pulsioni dell’inconscio ... Lo statuto dell’Immagine - stabilito nel 787 a Nicea, e pienamente condiviso da cattolici e ortodossi - lo sollecita a "rendere visibile l’invisibile" dando vita a immagini diverse da quelle consumistiche, che (secondo osservatori attenti come Freedberg, Belting, De Bray) caratterizzano l’attuale videocrazia, volta solo alla programmata riduzione del valido al visibile.

 

Per gentile concessione del quotidiano L'Arena di Verona



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