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L’apologo del canarino e l’arguzia di Saul Steinberg
 
di

Gian Luigi VERZELLESI
 

«Nelle miniere di carbone - scrive Gore Vidal, romanziere e saggista statunitense - i minatori portano spesso con sé un canarino. Lo mettono nel pozzo e quello canta. Se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire: l'aria è velenosa. Per me - conclude Vidal - noi scrittori siamo dei canarini».
Questa breve parabola non si attaglia soltanto agli scrittori ma anche agli artisti, che somigliano ai minatori se cercano di portare alla luce ciò che vive nel profondo del loro animo e anela a manifestarsi in figure comprensibili, e apprezzabili, non meno delle parole più veritiere degli scrittori. Se invece non ricorrono a un «canarino» (che li salvaguardi col suo canto rassicurante), rischiano di non accorgersi che «l'aria è velenosa». E allora corrono il pericolo di restare prigionieri del pozzo, là in fondo, nel buio della miniera, dove continuano a lavorare.
- Ma come possono prevedere che da quel sottosuolo inquinato, tra poco, non uscirà più un palpito di luce?
La domanda si ripropone di continuo a chi consideri attentamente la condizione dell'artista post-moderno, assai simile a quella del minatore che, sprofondato nei cunicoli d'una miniera, estrae fantasmi scaturiti dall'immaginario dell'angoscia o dall'intento di attrarre l'attenzione del pubblico, frastornato, sulle più sensazionali esibizioni di stranezze di marca tecnologica… Di fronte a questo sconcertante panorama, oggi la critica, ridotta al lumicino, svolge un ruolo sempre più fievole, propiziatorio, meglio se encomiastico. Ben diverso comunque da quello assunto da Jean Starobinski nel delineare magistralmente il Ritratto dell'artista da saltimbanco (ed. Bollati e Boringhieri) nell'intento, riuscitissimo, di caratterizzare le doti dell’ artista- clown che ricorre a varie maschere per rivelare se stesso dando forma alla sua ansia di perfezione e al suo narcisismo, all'insaziabile brama di successo e alla profonda malinconia che l'accompagna.
Nell'esemplare saggio di Starobinski, l'occhio critico si apre sulle opere di artisti come Rouault, Ensor, Daumier, Redon, Picasso. E si sofferma in particolare su Baudelaire, che, con quel suo estro geniale, «ha attribuito all'artista, nei panni del buffone e del saltimbanco, la contraddittoria vocazione dello slancio e della caduta, dell'altitudine e dell'abisso». Ma nei dipinti dei maestri di cui parla Starobinski, la figura del clown risulta sfaccettata e polivalente pur coincidendo sempre con quella «dell'intruso che si impone o che viene espulso» o ridotto ai margini di «una società organicamente strutturata», ben diversa dalla frenetica società tecnoscientifica odierna, nella quale la presenza del clown è ormai relegata sotto la tenda del circo e non compare più sulle tele. Oggi, precisa Starobinski, alla fine del saggio, anche in arte, «non ci sono più limiti, dunque non c'è più infrazione».
Gli artisti si formano in accademie in cui lo sradicamento dalle tradizioni (in contrasto netto con la saggia tesi di Simon Weil) è accolto come un toccasana. Il mercato internazionale regola tutto: accoglie ogni specie di prodotto, purché sia «testato»… Le istituzioni vigenti non avversano ma proteggono, sponsorizzano anche le rassegne più effimere e caotiche…
- E il «canarino», di cui parla l'apologo di Vidal, che fine ha fatto? Forse canta ancora, nella gabbietta degli artisti che procedono controcorrente e resistono all'andazzo. Ma il suo canto è quasi impercepibile, sopraffatto dal ritmico frastuono, visualizzato con arguzia nella vignetta di Saul Steinberg , in cui spicca una processione di barbe solenni e stereotipate che passa davanti all'edificio dell' Accademia dell' Avanguardia , vittoriosa e trionfante.
 
 

 

Jean Starobinski

Jean Starobinski è nato a Ginevra nel 1920. Svizzero di lingua francese, si è laureato in lettere e in medicina, è approdato alla critica letteraria dopo studi psichiatrici e psicoanalistici. Nel 1953-1957 ha insegnato letteratura francese all'Universitàdi Baltimora. E' passato poi a quella di Ginevra. Ha collaborato a numerose riviste, tra cui «Nouvelle revue franç aise» e «Tel Quel». E' stato una delle voci più originali della 'nouvelle critique', con i saggi "Montesquieu secondo Montesquieu" (Montesquieu par lui-mê me, 1953) e "Jean-Jacques Rousseau : la trasparenza e l'ostacolo" (J.J. Rousseau: la transparence et l'obstacle, 1958).
Ne "L'occhio vivente" (L'oeil vivant, 1961) ha analizzato le opere di Corneille, Racine, Montesquieu, Stendhal, con una impostazione che cerca di definire i rapporti tra autore e spazio letterario, tra necessità e spontaneità dello scrittore e ostacolo posto dall'oggetto.
Tra gli altri saggi si ricordano: "L'invenzione della libertà" (L'invention de la liberté , 1964), "Ritratto dell'artista da saltimbanco" (Portrait de l'artiste en saltimbanque, 1970), "1789 : gli emblemi della ragione" (1789: les emblèmes de la raison, 1973), "Tre furori" (Trois fureurs, 1974), "L'occhio vivente II : la relazione critica" (L'oeil vivant II: la relation critique, 1979), "Montaigne in movimento" (Montaigne en mouvement, 1983).

Sensibile, per sua stessa formazione, alle suggestioni del metodo psicoanalitico, ma duttile e sorvegliato; aperto anche a una sociologia intesa a cogliere l'operante, diffusa presenza di miti, simboli, archetipi, Starobinski attua una operazione critica che non si irrigidisce in una metodologia dogmatica ma lascia sempre campo a nuovi scandagli e a diversi sistemi di indagine.

 


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