Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

NOTE A MARGINE DI UN VIAGGIO NEL FRIULI VENEZIA GIULIA

      di Giuseppe Casarrubea

 

 

 

E’ preoccupante pensare a quanta strada debba ancora fare l’uomo prima di raggiungere, sui fatti della sua storia, la serenità del giudizio di cui ha bisogno, anche per il suo avvenire e per quello dei suoi figli. I conflitti, le guerre, i contrasti vissuti nelle generazioni appena passate, gli errori sono destinati a ripetersi in eterno e nei vari luoghi, in altre forme, se non vengono assunti a insegnamento e se nessuno ci rammenta che ne dobbiamo trarre una lezione. Per ovviare a questa regola salutare basta dimenticare. Ma la rimozione cronica del ricordo provoca la demenza e questa non ci aiuta certo a vivere meglio. Il ricordo può essere dovunque, nelle cose invisibili e piccole, nei grandi eventi che hanno segnato il volto e la carne degli uomini, nelle gioie e nei dolori di ogni giorno. Ma per uno Stato, e per quello che gli uomini hanno fatto in nome del popolo, forse nessuna storia è più emblematica, più illuminante, di quella che riguarda ciò che è accaduto, nel bene e nel male, lungo la sottile linea che gli uomini hanno tracciato, spesso con le armi puntate, con le torrette di avvistamento, col filo spinato e con le guerre, attraverso il solco artificiale che ha segnato il “nemico” oltre il muro invisibile o reale, quello che stava ‘di là’ o, quell’altro che appariva come “interno” alla stessa linea di confine.

 

Nel Novecento il 1943 fu un grande spartiacque, la chiusura e l’apertura di due capitoli distinti, non sempre opposti, della storia. Allora, pochi italiani forse si posero il problema della legittimità della presenza dei nostri eserciti in territori per molti aspetti diversi dalla nostra cultura e dalla nostra storia, e furono molti quelli che ritennero le conquiste coloniali e l’assoggettamento di altri popoli una follia della ragione, un errore percettivo della nostra mente. Poi quel folle cordone nero fu rotto dalla guerra e la realtà si decantò alla luce del sole. Naturalmente non fu tutto oro quello che brillò e gli argini artificiali che si erano costruiti un po’ dovunque attorno ai confini di una Nazione, anche se non lo consentivano i nuovi Trattati e il buon senso, crollarono come d’incanto, lasciando il terreno a un nuovo diritto e ad altri confini.

La fine del fascismo produsse uno degli effetti di questa disgregazione, come del resto la sconfitta del nazismo e il crollo del comunismo totalitario. Se ne scorgono le tracce nell’effervescenza dei fascisti sul tema della riscoperta delle foibe nella zona carsica del confine italo-sloveno. Ne fanno un uso ideologico e strumentale, al solo scopo di sviluppare una campagna antislava e di acuire non si sa quale sorta di anticomunismo. Dico riscoperta perché la storia dei crimini che rappresentano questi luoghi segue percorsi che partono dagli anni della seconda guerra mondiale e da alcuni responsabili: i comunisti jugoslavi, all’epoca di Tito. Alcuni anni fa ebbe ad occuparsene un ricercatore sloveno Franc Maleckar che, dopo avere cominciato una vasta campagna di recupero di resti di decine di infoibati nelle cavità carsiche tra San Servolo e Villa del Nevoso, scoprì immensi cimiteri sotterranei. Chiese di estendere le sue ricerche ad altre foibe e per tutta risposta fu destituito dal suo incarico.

 

Il fatto che recentemente (marzo 2006) la Slovenia abbia consegnato un elenco di 1.048 deportati goriziani, nel 1945, da parte delle milizie jugoslave del IX Corpus, è certo un passo avanti nei confronti della verità storica occultata per oltre sessant’anni, ed è anche il segno di una volontà di collaborazione tra l’Italia e questa neonata Repubblica. Un segno importante, ma debole, perché questo passo non esaurisce la complessiva tragedia che le popolazioni della zona di confine italo-sloveno subirono negli anni dell’immediato dopoguerra, ed è assolutamente improprio parlare, come hanno fatto molti giornali e uomini politici, di “riconciliazione”. Esattamente come è errato parlare di pacificazione tra, da un lato i repubblichini di Salò, specie se viventi, e ancora paradossalmente fascisti come prima e, dall’altro, i partigiani che contro di loro dovettero organizzare una vera e propria guerra. Un fatto storico va valutato per quello che è stato, nella sua completezza. La politica è un’altra cosa. E’ assurdo che si voglia assumere la storia a pretesto di improponibili assoluzioni. Sarebbe come se nel Novecento o in questi anni qualcuno avesse deciso di riparare alle tragedie provocate dagli anni del terrore giacobino, all’epoca della rivoluzione francese. Sarebbe più corretto spiegare la necessità di abbattere vecchie barriere tra Stati che oggi non hanno più motivo di esistere e suggerire una prospettiva europea che travalichi i limiti dei singoli nazionalismi, lasciando che ciascuno faccia tesoro dei propri errori e consegni alla storia ciò che non può e non deve essere dimenticato, né, tantomeno, nascosto. Inoltre, c’è da dire, il problema è degli Stati e non dei sindaci; deve coinvolgere i ministri e, attraverso di loro, anche i primi cittadini cointeressati a un progetto di condivisione e di promozione della memoria storica. Le foibe di Basovizza (Basovica), una frazione del comune di Trieste, di Ielenca Iama, a Cruscevizza, e di Opicina, risalente, quest’ultima, al maggio-giugno 1945, non appartengono a questo o a quel partito. I morti sono un monito per tutti. Basta rispettarli. Eppure vi sono divisioni che ancora permangono, e che consegnano intere popolazioni, al primato di essere, innanzitutto, sudditanze di un potere nazionalista, anche quando nega di esserlo.  E’ il caso di tutta l’area di confine italo-slovena, dove lingua e religioni si fondono, usi e costumi accomunano intere popolazioni che non dovrebbero essere separate da una artificiosa, immaginaria e ideologica linea di confine. Il caso più emblematico è dato da Gorizia, istituzionalmente una città divisa in due alla faccia del caduto muro di Berlino. La città isontina è, infatti, divisa da un muro virtuale, di confine, segnato dalla volontà di due Stati, dai trattati internazionali che hanno fatto di questa città e del suo hinterland, una realtà lacerata, una città che sembra vivere su due civiltà e ritmi diversi: quelli di due municipalità ben diverse: la Gorizia italiana del sindaco Vittorio Brancati e, a quattro passi da lì, la Nuova Gorica rappresentata dal sindaco Mirko Brulc. Tuttavia, l’elenco dei deportati del capoluogo isontino fornito da questi al suo collega dell’omonima città, cresciuta sotto l’impulso della Slovenia, è un segnale positivo che potrebbe essere assunto come il primo atto di un processo di trasparenza storica e di interscambio che aiuti l’integrazione sociale e culturale della popolazione che gravita su questa realtà geografica. Compito che riguarda altre città del confine sloveno. A questo processo potrebbero contribuire anche gli archivi della memoria che all’epoca della dissoluzione della ex Jugoslavia furono trasferiti da Belgrado a Lubiana e Zagabria e che in gran parte sono rimasti segreti, come il fondo Ufficio zone di confine. In ogni caso appare evidente che il quadro da tenere presente dovrà seguire un preciso periodo storico che sembra potersi spiegare a partire dall’irredentismo successivo alla prima guerra mondiale, snodandosi lungo le vicende del fascismo fino a quelle conseguenti al Protocollo di  Potsdam (1945) e in particolare al Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 e ratificato il 15 settembre successivo.

Gorizia, col suo monumentale ricordo dei centomila morti di Re di Puglia, indicati uno per uno su lapidi di bronzo che ne riportano i nomi, rende sempre vivo il senso profondo di una Patria costruita col sangue di milioni di caduti nella prima guerra mondiale. Quei nomi, illuminati ogni giorno dai raggi del sole al tramonto, sono un monito, un segnale per chi sa coglierlo nel silenzio significativo del luogo.

Città come Trieste e Gorizia hanno subìto  in tutto questo periodo, e anche dopo, con effetti che perdurano ancora oggi, il travaglio della loro sudditanza alla giurisdizione slovena e italiana, con le violenze fasciste prima e titine, dopo. Col Trattato l’Italia perse ben 9.953 chilometri quadrati di territorio, le province di Fiume, Pola e Zara, parte delle province di Trieste e Gorizia. Trecentocinquantamila italiani furono costretti a lasciare quelle terre, legati com’erano  a Venezia e all’Italia.  A questo proposito va tenuto conto di quello che ha riferito alla stampa il presidente dell’Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota a proposito della pubblicazione dell’elenco dei deportati goriziani: “…le liste che vanno divulgate sono ben altre e cioè quelle che Lubiana tiene ancora nascoste nei propri archivi o, come sappiamo, nelle cantine o nelle librerie di molti gerarchi del IX Corpus ancora viventi”.

Il fatto è che le foibe, hanno una continuità nelle rivendicazioni territoriali del fascismo all’epoca della sua espansione colonialistica, quando i territori slavi furono assoggettati all’Italia e i resistenti nella zona del confine carsico, perdurante il regime,  persero ogni diritto conquistato all’epoca della dominazione austroungarica. Allora il fascismo tentò di italianizzare persino le lingue slovena e croata, assaltando quelle terre e limitandone  i diritti civili, etnici e religiosi. Quante furono le vittime del fascismo in questa forsennata battaglia? Meno note sono, dunque, le foibe fasciste, dove già dalla fine della prima guerra mondiale, gli irredentisti nostrani che volevano estendere la nazionalità italiana ai territori occupati dagli sloveni e dai croati, buttavano i corpi trucidati dei “resistenti” jugoslavi, fin dopo l’epilogo della guerra d’Albania, quando Vittorio Emanuele III ne fu dichiarato imperatore. Di queste foibe fasciste prima e naziste dopo, non se ne sa nulla, come poco si sa delle atrocità commesse dagli italiani nelle campagne d’Africa, in Libia, in Etiopia e in Somalia e in tutto il corno d’Africa. Il fenomeno dell’infoibamento dei “nemici” ebbe una sua recrudescenza tra l’8 settembre 1943 e il mese di aprile del 1945, quando, ad opera del movimento di liberazione jugoslavo, parecchie centinaia di vittime furono gettate, dopo processi sommari, in quegli sprofondamenti carsici così frequenti, oltre che in Istria, nelle zone di Trieste e Gorizia. Perciò, che la Croazia e la Slovenia avviino un processo di trasparenza per la storia, non può che fare piacere. Come utile può tornare il libro di Lucio Toth, Perché le foibe (Roma, 2006), se letto per capire non solo la prima ondata di terrore  sanguinario a cavallo dell’8 settembre 1943, come effetto della dissoluzione dell’esercito italiano, ma anche il ventennio precedente, quando il fascismo si manifestò nelle sue mire imperialistiche contro le popolazioni a oriente dell’Italia e contro quelle africane. Una lettura di tal fatta aiuterebbe a capire le violenze inaudite subite dalle popolazioni istriane, dalmate e giuliane in questa fase virulenta precedente l’armistizio dell’8 settembre, e viceversa le violenze subite dagli italiani che in quelle terre vissero dopo questa fatidica data e dopo il crollo del regime. A monte vi era stata l’occupazione italiana della “Provincia di Lubiana” che costò la vita a cinquemila civili. Inoltre, come fa notare Nevenka Troha, “mentre si rimprovera alla Slovenia di avere reso disponibili soltanto ora alcune informazioni sugli scomparsi, la parte italiana sembra invece dimenticare di non avere mai reso note le liste degli Sloveni che sono morti nel campo di concentramento gestito dalle truppe italiane nell’isola di Arbe, dove, secondo i dati dell’Istituto di storia contemporanea di Lubiana, avrebbero perso la vita 1147 persone, tra cui  un gran numero di neonati e bambini”, oltre che di donne e di anziani.  (Il Piccolo, 11 marzo 2006). Si vedano, in ultimo, le ribellioni dei contadini contro i possidenti italiani e le autorità fasciste che avevano provocato col loro comportamento l’insorgenza del fanatismo nazionalista. Mancano allora all’appello gli elenchi di quei cinquemila morti che pesano tutti sulla coscienza dei fascisti prima del 25 aprile 1945. Negligenza degli storici? Meglio pensare alla coscienza sporca dei italiani, come direbbe oggi Angelo Del Boca. Tutto ha una storia antica, una sua innaturale evoluzione, fino alla jacquerie, fino alla follia, quella delle masse incontrollabili, e quella di chi, mantenendo i misteri e i segreti, fomenta ancora l’odio e lo spirito delle fazioni e della guerra. Perciò la storia è maestra di vita per tutti coloro che vogliono impararne la lezione. Per quelli che non hanno orecchie per sentire, non ci sono mezzi che tengano.

 

Può tornare utile la conoscenza dei recenti studi di Lorenzo Baratter, editi da Mursia sotto il titolo Le Dolomiti del Terzo Reich, che affronta il tema di un’altra area di confine dell’Italia, quella del Trentino-Alto Adige divenuto zona di insediamento germanico prima dell’8 settembre, quando, già alla fine di luglio, di fronte all’imminente crollo del regime mussoliniano, il terzo Reich invase la provincia di Belluno e poi, con l’operazione “Achse” il generale Rommel invase anche Trento e Bolzano costituendo l’Alpenvorland (Zona di operazioni delle Prealpi), con a capo il gauleiter (commissario supremo), l’austriaco Franz Hofer. Alla resistenza dei bellunesi i nazisti risposero con l’incendio di vari paesi come Aune, Pieve d’Alpago, Caviola, Valle di Seren. Anche questa è una storia ancora da scoprire, come molte delle storie accadute in quegli anni, ai confini e dentro le carni vive  della Nazione.

 

La storia è veramente oceanica, molto più ricca di quanto si possa immaginare. Nel nostro caso si riconduce alla  prima guerra mondiale, quando la geografia europea era mutata  fino poi allo straripamento nazista del 1939. Nella Venezia-Giulia i fasci di combattimento di Mussolini erano particolarmente presenti già dall’autunno del 1920 e si svilupparono in area slava entrando in conflitto col clero locale.

L’irredentismo, come il nazionalismo, furono fatti del comportamento nazionale che provocarono gravi atrocità, massacri e, in ultimo, il fascismo. Dalla questione fiumana dell’esaltato D’Annunzio all’entrata in guerra di Mussolini con Hitler.  Non è un caso che questi fenomeni abbiano persino lasciato un segno nei locali pubblici dove solevano riunirsi quelli che li sostenevano, come accadeva a Trieste con gli irredentisti usi a incontrarsi al Caffé storico “San Marco”, proprio alle spalle della grande sinagoga ebraica. Ma basta salire un po’ più in là, varcare il confine sloveno, lungo le colline del Carso che lo delimitano, per rendersi conto dell’artificiosa pretesa di considerare quelle terre, come appartenenti al territorio italiano. Qui si parla la lingua slovena, e si praticano usi e costumi che italiani non sono.

Eppure queste zone di confine evidenziano, più degli stessi territori italiani, il carattere multietnico di quelle comunità. Segnano il senso più autentico dell’Europa che dovremmo costruire e di cui una grande anticipatrice è proprio Trieste. Città europea per eccellenza, multietnica e multilinguistica, aperta a tutte le religioni. Ne sono simbolo le chiese e la grande piazza dell’Unità d’Italia, col Caffè degli Specchi, i suoi incontri, i suoi confini che scompaiono, per essere essa stessa la città di tutti, mitteleuropea, ed europea. Quest’apertura è segnata visivamente dalla stessa conformazione delle piazze: aperte al mare come a indicare il senso di una comunità protesa al futuro e al mondo; è segnata anche dalle sue chiese, quelle, ad esempio, di piazza Sant’Antonio, la Chiesa cattolica omonima e la chiesa serbo-ortodossa, alle quali poi si aggiungono la grande sinagoga, la chiesa greco-ortodossa San Nicolò, la comunità cristiana evangelica, e altre. Città simbolo del dialogo interreligioso, è umile e discreta nella sua monumentalità, dominata com’è dal colle di San Giusto che ne rappresenta il cuore primordiale. Trieste è anche la città di Umberto Saba, delle osterie e dei Caffè che egli frequentava, e dei “cantucci” dove egli soleva rifugiarsi e che gli facevano sentire la sua città piena di una “scontrosa grazia”, come un “ragazzaccio con occhi e mani troppi grandi/ per regalare un fiore”. E’ anche la città dello scrittore irlandese James Joyce e di Italo Svevo. Tutta ancora percorribile, con i suoi spazi, i suoi luoghi letterari, come un grande laboratorio di civiltà, punto di convergenza tra est e ovest, nord e sud. Ne sono una prova anche i castelli della costa: quello dei principi della Torre e Tasso, a Duino, che ospitò Johan Strauss, Franz Liszt, Mark Twain, Paul Valery, Gabriele D’Annunzio; il castello di Miramare, col suo museo storico e il suo parco cui fanno riscontro i numerosi musei del capoluogo: il Museo del Castello di San Giusto, i musei Morpurgo e Carlo Schmidl, quelli di storia patria e d’arte orientale, il museo del Risorgimento e quello di Guerra  per la Pace Diego De Henriquez, il Museo della Risiera di San Sabba, e altri. Luoghi della cultura e della memoria, e non solo: del senso più profondo della Nazione, del suo spirito, della sua apertura alla civiltà e delle sue battaglie per conquistarla, a fatica.

Se varchi il confine nazionale, alcuni chilometri più in là, ti lasci dietro i segni tangibili delle stragi che hanno insanguinato l’Italia. Sulla strada Gorizia-Trieste scopri Peteano, dove un’incisione su pietra, dedicata dalla cittadinanza di Sagrado, ricorda  i carabinieri uccisi la notte del 31 maggio 1972 dai terroristi neri: Antonio Ferraro, Donato Poveruomo, Franco Dongiovanni. Morti che nessuno più ricorda, morti che a torto, forse, furono “usi obbedir tacendo e tacendo morir”. Quando t’inerpichi nel Carso, poi, senti il tempo lungo della violenza, tra le due città al confine sloveno, epicentro di follie come lo sterminio, ad opera della Decima Mas, del villaggio sloveno di Trnvo (Tarnova), le deportazioni in Italia perpetrate contro gli sloveni, a partire già dal 1941. Non c’è confine tra Italia e Slovenia; non è un confine la lingua, non è un confine un posto di blocco, o una vecchia torretta. Te ne accorgi solo se sul cellulare anche in territorio italiano, compaiono e scompaiono a tratti i nomi delle grandi aziende della telefonia mobile. Lungo il Carso te ne accorgi se dal tuo display scompare Vodafone e compare Mobitel Gsm.

 

Fa da contrappeso a questa triste memoria Sesana, cittadina emblematica. Quando nel 1924 vi nacque Danilo Dolci, era italiana. Oggi è slovena e porta il segno della sua continuità culturale. Una targa dell’Associazione “Drustvo Vilenica” (grotta delle fate) nella facciata principale dell’hotel Tabor, dedicata al sociologo che passò cinquant’anni della sua vita in Sicilia dedicandola ai più umili e allo sviluppo, ne ricorda la casa natale, oggi non più esistente. Sesana conta circa tremila abitanti e una casa di cultura, costruita dal nuovo governo sloveno, denominata “Kulturni dom Srecka Kosovela”, con un teatro con cinquecento posti a sedere e ampi spazi per mostre di pittura e d’arte in genere. A ricordarsi di Danilo c’è la signora Slava Kranjee, moglie di Miro, operaio della fabbrica “Macchine di Sant’Andrea” di Trieste, condannato a morte dai nazisti, diventato poi un affermato pittore e traduttore negli incontri letterari del confine italo-sloveno. Danilo Dolci, dunque, un anticipatore dei tempi. Fu sempre preoccupato delle modalità attraverso le quali si perpetua la violenza, il dominio. Diceva che se gli uomini non conoscono i loro errori, sono destinati a ripeterli. E Trieste è lì, ancora una volta, a testimoniarlo.

 

Non sapremo mai con precisione quanti furono gli uomini, le donne, i bambini, i ragazzi giunti nei forni crematori della Risiera di San Sabba. Forse cinquemila. Certamente parecchie migliaia furono quelli che passarono di qui, per essere spediti nei campi di sterminio allestiti dai nazisti in varie parti d’Europa. Certamente ci fu Bavcar Zorko, partigiano sloveno che, pochi attimi prima di essere ammazzato, ad altro non pensò che a gridare: -morte al fascismo e libertà ai popoli- ; ci fu Pino Robusti, un giovane che andò incontro alla morte scrivendo con grande serenità a Laura, sua innamorata; ci furono tutti quelli che non avendo dove lasciare una traccia della loro presenza in quel luogo infernale scrissero al muro, scalfendolo: -qui siamo trenta ragazze, dieci uomini, sei ragazzini sedicenni, quattro uomini tra i trenta e i quarantacinque anni-. Ci furono molti sloveni e ci fu anche Luigia Cattaruzzi, la partigiana “Gigetta”, poco più che ventenne, dolce, col suo sorriso innocente. Ci furono anche, per breve tempo prima di essere ammazzati, quei detenuti politici e quegli ostaggi, italiani, croati e sloveni che presi alla rinfusa, dopo un attentato dinamitardo attribuito ai comunisti, commesso il 23 aprile 1944, contro il Deutsches soldatenheim, furono impiccati per rappresaglia sulle balaustre delle scale e sulle finestre di un palazzo di via Ghega a Trieste. Ma non bastò ai nazisti far saltare, nell’aprile del ’45, il forno crematorio per annientare la traccia della loro esistenza e della loro gioia di vita. Giornalmente due tedeschi si recavano dalla Risiera al Moletto della Raffineria per scaricare a mare le ossa e le ceneri dei cremati. Pensarono che cancellando le tracce dei loro delitti, anche la loro coscienza potesse tornare pulita. Ma si sbagliavano. I delitti contro il genere umano sono indelebili e non c’è prescrizione che possa cancellarli.

 

Bolscevismo e giudaismo furono i due obiettivi da colpire da parte dei nazifascisti, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Questi anni raggiunsero una particolare virulenza negli stermini del ’43-’45 proseguendo dopo, sotto altre forme, con ideologie più nascoste, più sotterranee. Mauthausen, Dacau, Natzweiler, Flusenburg, Auschwitz, Kobjercyn, Rawa Ruska, Treblinka, Buchenwald e molti altri campi di sterminio, furono allora il segno dello smarrimento di ogni traccia di umanità nel genere umano: la negazione dell’uomo di se stesso. Un calvario della follia che passa da tante altre atrocità ancora oggi poco conosciute, contro gli uomini, il loro credo politico e religioso, e di cui la Risiera di San Sabba è, per l’Italia, il monito più alto.

 

Tutto fu sperimentato e tutto si incrociò, per un’attrazione fatale, nel mare tempestoso in cui nuotavano quanti non volevano cambiare. Dopo Salò, e dopo la sperimentazione nazista sul “Litorale adriatico”, territorio affidato da Hitler a Friedrich Rainer, un nazista austriaco, in città come Lubiana andarono a prestare manforte personaggi che con la banda Giuliano, saranno gomito a gomito, come Ciro Verdiani ed Ettore Messana, con compiti di ispettorato poliziesco anticomunista. I fascisti, che in quelle terre c’erano già stati, divennero “Milizia Difesa Territoriale” e i reparti di polizia, centrali di rastrellamento. Tra queste l’Ispettorato Speciale di Ps per la Venezia Giulia, agli ordini dell’ispettore generale Giuseppe Gueli. Quest’istituto era stato creato nell’aprile 1942 con specifici compiti di repressione della guerra partigiana e di controllo del movimento operaio. Il braccio operativo di questo ispettorato fu la “banda Collotti” che prendeva nome dal suo comandante, il commissario Gaetano Collotti. Si tratta di un’organizzazione criminale molto simile alla banda Giuliano. Entrambe erano sotto controllo diretto di un ispettorato di polizia e avevano il compito di essere un braccio operativo della repressione anticomunista e antifascista. Non è pertanto un caso che Ettore Messana e Ciro Verdiani, che a Lubiana avevano diretto la lotta antipartigiana, saranno i principali protagonisti della vicenda Giuliano, prima che il secondo finisse i suoi giorni come ufficiale del ministero della Frontiera dopo la nascita della Repubblica, e il primo fosse stato eletto ispettore generale di Ps, a guerra finita, nel 1945, piuttosto che essere mandato in pensione, avendo già chiuso la sua carriera. Nella lotta contro il comunismo in Sicilia, insomma, è proponibile che sia stato riprodotto il modello nazifascista dell’esperimento del Friuli-Venezia-Giulia e del “Litorale Adriatico”, con l’affidamento alla banda Giuliano (visto che non potevano farlo, perché ormai disciolte, le milizie della difesa territoriale antititine dipendenti dal gauleiter Rainer) del compito operativo della guerra ai “rossi”. E’ un’ipotesi o un aspetto delle connessioni che fecero di Portella la madre di tutte le stragi. Ma, come si vede, l’analisi del prototipo del modello stragista è ancora da studiare. Per fortuna, rispetto a prima, si sono fatti grandi passi avanti.

     Certo è, comunque, che da allora nulla fu più indifferente alle sorti future degli italiani.


La pagina
- Educazione&Scuola©