Dimensionamento: il gioco dei numeri, ovvero la scuola a "pezzi"

di Mariella Spinosi

 

Cosa significa per il territorio l’istituzione di una scuola in verticale?
Un’offerta di qualità, una scuola più organizzata e più rispondente ai bisogni dell’utenza? Potrebbe essere invece solo un’opportunità per tenere in piedi istituzioni fatiscenti?
Ha senso che siano gli amministratori locali i nuovi decisori delle politiche scolastiche senza una legge di Riforma?
Il futuro Riordino dei cicli sarà calibrato sul nuovo paesaggio disegnato dalle operazioni di dimensionamento? O invece potrebbe anche non tenerne conto tracciandone uno nuovo?

 

Competenze dei docenti, organizzazione della scuola e risultati degli studenti

In che misura l’organizzazione della scuola, le competenze professionali dei docenti e le capacità organizzative del capo d’istituto incidono sulla qualità dei risultati degli alunni? La risposta non può essere che ovvia, le evidenze empiriche sono rintracciabili in tutte le esperienze almeno degli ultimi trent’anni e il senso comune sa districarsi abbastanza abilmente dentro gli intricati contesti spesso camuffati da roboanti piani di cosiddette offerte formative. Se sul versante della cultura comune ciò fa parte dell’inconfutabile, non accade la stessa cosa tra tutti coloro che si occupano a vario titolo della scuola. Il paradosso non è spiegabile è solo rilevabile, perché se così non fosse ci sarebbero state già da tempo delle politiche scolastiche coerenti. Prendiamo, per esempio, la formazione dei docenti: fino ad oggi, ha avuto, nella maggior parte dei casi e non nei peggiori, un valore puramente autoreferenziale centrato tutt’al più sulla qualità della formazione in sé, ma non collegato con la qualità degli esiti degli studenti. Prendiamo l’organizzazione della scuola nella sua accezione più generale: anche in presenza delle migliori riforme (e tra queste soprattutto la legge 148) ha sempre subordinato i problemi dell’efficacia dei risultati alle regole burocratiche. Dal punto di vista del senso comune è probabile che un genitore sia ancora in grado di pensare che "se un insegnante è bravo forse anche il figlio può apprendere meglio"; per un docente ciò non è così ovvio, se è ancora molto diffusa la convinzione quasi messianica che risolve ogni possibile conflitto cognitivo nell’assunto "io ho fatto tutto, sono loro che non capiscono". Ma un genitore non si azzarda ad ipotizzare che nella scuola ci possono essere delle modalità migliori di economizzare il tempo, di distribuire razionalmente le risorse, di collegare funzionalmente i bisogni degli studenti alle offerte formative.

La possibile coerenza tra i risultati scolastici e la qualità dell’organizzazione è ancora più estranea alle mentalità correnti, non si spiegherebbero diversamente le scelte effettuate, nella maggior parte dei casi, da coloro che oggi stanno incidendo più direttamente sulla politica scolastica in fatto di dimensionamento delle istituzioni. Sono forse i responsabili dell’ultima ora, ma sono quelli a cui la Legge 59 ha affidato il destino della scuola italiana.

Nuovi soggetti per rispondere ai bisogni d’istruzione e d’educazione

I nuovi soggetti istituzionali chiamati a decidere del piano di dimensionamento sono incardinati non più negli organi periferici del Ministero della Pubblica Istruzione, ma dentro il sistema delle autonomie locali. Ciò dovrebbe muoversi in sintonia con lo stesso concetto di dimensionamento letto ed interpretato dentro il principio di autonomia. Ma tale principio è anche quello che dovrebbe innanzitutto permettere ad una scuola di conservare il diritto di esistere assicurando condizioni di stabilità, o il diritto di comunicare e di socializzare assicurando legami di reciprocità tra scuola e territorio; ma è anche e soprattutto quello stesso che dovrebbe agevolare le condizioni perché i risultati degli studenti siano più soddisfacenti sul piano personale, più apprezzabili sul piano sociale, soprattutto più spendibili nel modo del lavoro.

Il compito di rispondere ai bisogni d’istruzione e d’educazione di una comunità è estremamente complesso e difficile. I soggetti istituzionali (tecnici ed amministrativi) a cui in passato era stato affidato tale compito, non sempre sono stati all’altezza della situazione, spesso gli ingredienti che più di altri andavano ad incidere sulle scelte discendevano da interessi non sempre oggettivi, sovente corporativi, a volte anche personali; la stessa soppressione di un ufficio di direzione o di presidenza, per esempio, avveniva a seguito del pensionamento del capo d’istituto direttamente implicato. Oggi con la legge 59/97 (1) si attribuisce tali responsabilità a nuovi soggetti: il ruolo del provveditore oggi rischia di diventare solo notarile (2), i capi d’istituto non sono più consultati, gli insegnanti completamente ignorati anche nelle loro rappresentanze collegiali, sindacali o professionali (3), le commissioni paritetiche, un tempo forse abusate, ma comunque garanti di una visione al plurale, non sembrano avere migliore successo. Ora il DPR 233 attribuisce alla conferenza provinciale, convocata dal presidente della Provincia e formata da rappresentati dei comuni e delle comunità montane (4), il potere di ridisegnare il paesaggio scolastico. Sono gli amministratori locali quelli che hanno l’autorità ad istituire, per esempio, scuole in verticale o scuole in orizzontale, istituiti di monoindirizzo o di plurindirizzo. E lo possono fare senza tener conto di un quadro di riforma nazionale che dovrebbe, proprio in fase di decentramento e di autonomia, costituire i cardini ineludibili.

Qualche dubbio sui nuovi poteri assegnati

Molti sono i dubbi che osservatori anche non eccessivamente coinvolti oggi si pongono: si può contare, per esempio, sull’automatismo tra assegnazione del compito e garanzia di riuscita? I cosiddetti nuovi soggetti istituzionali sono in realtà soggetti politici che dovrebbero, per prendere buone decisioni, acquisire repentinamente anche competenze tecniche, o comunque avvalersi delle risorse in tal senso esistenti, altrimenti il pericolo che le scelte siano dettate solo da un’unica tipologia di parametri sarebbe inevitabile. Ma come si fa ad imparare repentinamente se non sono state neppure previste delle strategie di approccio facilitato, se coloro che avrebbero potuto, attraverso un lavoro cooperativo, agevolare l’apprendimento sono stati altrettanto repentinamente messi da parte? La tacita accusa rivolta ai "vecchi" soggetti istituzionali, quella cioè di essere "di parte" ed autoreferenziali, seppur vera, non può trascinare con sé anche il disconoscimento di competenza. La delicata operazione del ridisegno del paesaggio scolastico, in quanto sottratta totalmente ai tecnici della scuola, può garantire forse l’indipendenza rispetto alle logiche personalistiche di qualche capo d’istituto o di qualche provveditore "sensibile", ma difficilmente garantisce l’indipendenza dalle logiche che fino ad oggi hanno guidato la mano e la mente di molti politici di periferia. Qualcuno potrebbe facilmente confutare tali sospetti nel ricordare che la cultura dell’autonomia non è quella che intende sostituire al potere dei tecnici quello dei politici, ma è quella che chiama in causa le responsabilità di tutti i soggetti coinvolti. E tali principi sono incontestabili, ciò che resta problematico è l’efficacia dell’itinerario che stiamo percorrendo. È pur vero che l’autonomia paradossalmente non è più tale se viene troppo accompagnata e guidata da processi decisi da altri, appartenendo essa a quei termini che rifiutano l’imperativo, ma è altrettanto vero che per essere autonomi si ha bisogno sia di regole di quadro rigide, entro cui mettere alla prova la qualità delle scelte, sia di una nuova cultura che attualmente nessuno forse può dire di possedere.

La riforma dei sindaci

I sindaci, gli amministratori locali, hanno avuto il potere di modificare totalmente i vecchi paesaggi all’interno di vincoli modestissimi ed altalenanti e, per precise volontà superiori, senza alcun supporto o proficua collaborazione, neppure da parte di coloro che fino ad oggi sono stati considerati i veri tecnici della scuola (provveditori, capi d’istituto, docenti, ispettori).

Da due anni si sta dibattendo sul futuro riordino dei cicli scolastici. La proposta del Ministro, che inizialmente sembrava destinata ad un sicuro successo, ha incontrato invece innumerevoli ostacoli, tanto che attualmente poche sono le certezze. Se è vero però, come sembrerebbe dai sussurri del Palazzo, che un punto irrinunciabile sarà il ciclo lungo, e che elemento di mediazione sarà il numero delle annualità che lo compongono (6/7/8?), gli effetti della Legge di Riforma potrebbero richiedere modalità d’aggregazione completamente diverse da quelle che ora si stanno utilizzando. Che senso ha allora mettere nelle mani delle autonomie locali il potere assoluto di scegliere la nuova geografia della provincia quando essa potrebbe essere completamente e repentinamente modificata? Diversamente sarebbero attendibili allora le battute di coloro che ironicamente sostengono che la "vera riforma" non sarebbe altro che l’esito di complicati artifici di sindaci ed assessori, supportati magari da saggi consigli di occulti manovratori. E se il pericolo, prima del 31 dicembre 1998, cioè prima dell’approvazione del piano di dimensionamento da parte delle conferenze provinciali, era solo temuto, oggi, in molte realtà, appare nella sua concretezza.

Come un ombrello su una macchina da cucire

Leggendo alcuni piani, infatti, ci si rende subito conto che non sempre il concetto di dimensionamento ottimale è stato interpretato in termini di efficace esercizio dell’autonomia, come dire: garantire alla scuola una certa stabilità, agevolare il diritto all’istruzione, favorire il conseguimento degli obiettivi pedagogici, assicurare la capacità di confronto e di interazione (5). Non pochi sono coloro invece che hanno utilizzato questo momento significativo e delicato per interventi finalizzati a obiettivi non rubricabili tra quelli previsti dallo stesso DPR 233. Non è raro trovare in queste operazioni di natura provinciale:

Il panorama che da queste operazioni si intravede è estremamente variegato, non perché ricco di una pluralità di modelli presumibilmente di pari efficacia, in quanto costruiti su elementi criteriali condivisi, comunque sensati, ma perché disegnato su unità minimali che stanno tra di loro come "un ombrello su una macchina da cucire" (Battiato).

E la scuola della "re-pubblica"?

Il DPR 233 sembrerebbe, quindi, risolvere il problema della collocazione della scuola nel panorama futuro che già la legge 59/97 indicava decentrata nel sistema territoriale delle autonomie locali, anche se con alcuni margini di apertura a diverse sistemazioni concettuali. Allora le scuole saranno svincolate da ogni possibile "ingerenza" di tipo nazionale dipendendo esse direttamente dalle amministrazioni locali, oppure ci saranno ancora legami, anche se non diretti, con lo Stato che continuerà a rappresentarsi come garante di imparzialità, di correttezza procedurale e sostanziale, responsabile ultimo della qualità del sistema formativo?

Il regolamento sul dimensionamento sembrerebbe confermare la prima ipotesi: non si intravedono, infatti, indicazioni, forse neanche sotto forme di tiepidi suggerimenti, di supporto, di accompagnamento e di controllo che uno stato garante dovrebbe assicurare. Cosa accade quando gli assessori ed i sindaci non dimostrano di essere consapevoli della loro responsabilità civile, quando operano per evidenti fini elettorali o comunque di parte, o quando attraverso certi risultati dimostrano di non essere all’altezza del compito? Quale sistema di garanzie è stato pensato per evitare o correggere gli errori più grossolani? Le Regioni per esempio, entro il 28 febbraio dovrebbero approvare i piani di dimensionamento. Ma cosa può accadere in senso di assunzione di responsabilità tra il 31 dicembre e il 28 febbraio? Potrebbero per esempio entrare nel merito degli esiti provinciali? Ma se delle Regioni sono stati chiamati in causa solo gli organismi politici e non quelli di controllo, un eventuale giudizio sul merito diventerebbe forse difficile.

In molte realtà i provveditori sono andati oltre il ruolo notarile che il DPR sembrerebbe assegnare loro, non solo partecipando formalmente agli incontri ufficiali con in mano il pacchetto delle informazioni, ma concertando prima azioni con gli stessi politici e con i responsabili del mondo della scuola, facendo proposte, opponendo resistenza ove necessario, mostrando limiti e risorse, costruendo azioni di studio, di ricerca, di dibattito, riconoscendo le professionalità più alte, valorizzando gli operatori scolastici. Questa potrebbe essere un’azione di supporto, ma il DPR non la suggerisce se non tacitamente o confusamente.

Cosa farà il Ministero quando si troverà alle prese con la nuova geografia scolastica disegnata dalle province? Proverà a sfogliare il nuovo atlante, chiamerà a raccolta uno staff di saggi geografi con il compito di controllare attentamente il lavoro, di mettere il voto o di rinviare al mittente le pagine malfatte? Si limiterà solamente a controllare se alla fine i conti tornano chiedendo, ove non tornassero, i dovuti aggiustamenti? Oppure resterà a margine, osservatore discreto, in attesa di vedere come finisce la storia?

Nelle province dove non ci sono state attività preventive di concertazione, dove la cultura della partecipazione e della responsabilità non ha trovato cittadinanza, la cifra connotativa di questo momento di trasformazione è solo la delusione, il disagio e la frustrazione.

Molti capi d’istituto si sono ritrovati stranieri in casa propria, ignari delle logiche che hanno accompagnato le diverse risoluzioni, spesso impotenti, lontani, anche psicologicamente, dai luoghi della decisione. I docenti, che già da tempo vivono uno stato d’indifferenza e di rassegnazione, perché coinvolti solo a parole nel processo di riforma, non hanno ancora trovato in alcuna azione dell’autonomia un solo punto a cui riferire la propria competenza professionale. Le famiglie continuano ad essere pressoché estranee, spesso incuranti: non capiscono le logiche che determinano le istituzioni o le soppressioni delle scuole, gli spostamenti degli uffici, i cambiamenti dei docenti o del dirigente. Come si fa, infatti, a capire le strane alchimie che governano certe scelte come per esempio l’improvvisa promozione, a sede (ma virtuale) di istituto comprensivo, di un paese collinare di poche anime (e formalmente appartenente alla comunità montana) i cui uffici di presidenza restano però ubicati in altra zona, molto più comoda e confortevole? Miracolo di una formula che può salvare anche una scuola! (6)

E la mitica continuità degli Istituti comprensivi?

Gli Istituti comprensivi, fin dal loro esordio, suscitarono discussioni e perplessità. La preoccupazione dei critici più seri era che essi potessero assumere una funzione marginale residuale o strumentale e non rappresentare un vero e proprio progetto pedagogico. In seguito non pochi, tra coloro che si sono trovati dentro il nuovo processo, hanno dato con determinazione spinte propulsive, se non ancora sufficienti ad accreditare totalmente il nuovo modello di scuola, utili sicuramente a sgombrare il campo da interpretazioni riduttivistiche. Le attuali operazioni, poste in essere dalle scelte di politica scolastica di alcune province, rischiano di azzerarne la fiducia rendendo ipoteticamente infruttuosi i tentativi di costruire qualcosa di coerente e di funzionale. Come è possibile, infatti, rendere credibile il concetto di continuità quando gli alunni di una scuola elementare, dimensionata orizzontalmente, continuerà la formazione in una scuola media dello stesso territorio, ma dimensionata verticalmente con scuole di altri territori? Oppure, che possibilità di comunicazione produttiva ci potrà essere tra gli insegnanti o tra gli alunni di scuola elementare e media, quando quelli delle elementari fanno parte di un comprensivo residuo di spezzoni di scuole di paesi diversi (non necessariamente confinanti), e quelli della media di un’unità scolastica dimensionata orizzontalmente e completamente autonoma rispetto alle logiche territoriali e pedagogiche della scuola primaria?

Ci sono ancora alcuni casi in cui, all’interno di una zona discretamente consistente, dove sono stati realizzati due o più comprensivi, gli alunni di uno stesso rione, o contrada, o frazione sono collocati, per gli otto anni della materna e delle elementari, in un’unità scolastica verticale, ma per il triennio delle medie, in un’altra unità anch’essa dimensionata verticalmente.

Quale continuità inoltre si potrà iniziare a costruire se visibilmente e realisticamente non ci sono garanzie di stabilità, neanche sul piano numerico? Una scelta di molte province, infatti, è stata quella di attestarsi su parametri oscillanti tra i 500 e 600 alunni senza alcuna previsione di tenuta nell’arco del quinquennio, tra l’altro richiesta dallo stesso DPR 233 (7). Ci sono seri dubbi che queste unità scolastiche, indipendentemente dalle future scelte ordinamentali, possano durare; è abbastanza immaginabile, infatti, che nell’arco di pochi anni si ridurranno per via del naturale calo demografico e, nelle zone più marginali, per altri noti fenomeni di spopolamento e di abbandono. Inevitabilmente i numeri residuali non potranno garantire alcuna forma di confronto, di interazione e di negoziazione, come vorrebbero gli obiettivi dello stesso ordinamento.

Domande di senso

Alla luce di queste pur lacunose considerazioni, non possiamo con preoccupazione non porci la domanda sul senso di ciò che oggi sta accadendo: perché tutto questo movimento che, nella migliore delle ipotesi, si rivelerà sterile, nella peggiore, rischia addirittura di essere dannoso?

Possiamo anche accettare gli intenti politici che propongono una riforma a pezzi, possiamo anche condividere le difficoltà che s’incontrano di fronte a decisioni di grande rilievo che mettono in gioco la vita professionale e personale di molti soggetti, quello che ci appare difficile ad ammettere è che si prendano oggi tali decisioni (regolamento sul dimensionamento) (8) anche quando già in partenza si intuiscono che saranno di brevissima durata perché altri "pezzi" del mosaico, che nel frattempo si andranno a definire, detteranno altre regole ed altre leggi.

Generalmente, la prima regola che viene insegnata ad un anonimo corsista, principiante ed inesperto di cultura organizzativa, è quella che un qualunque progetto ha bisogno di una lettura preventiva dell’impatto e di uno studio anticipato sui possibili esiti. Sarebbe importante, sul piano della comprensione dei meccanismi decisionali capire che tipo d’analisi preventiva sull’impatto sia stata fatta quando dal quartiere generale è stato varato il DPR 233, pur nella consapevolezza che la legge di riforma generale della scuola avrebbe avuto ancora difficoltà ed inciampi di vario tipo. E alla stessa maniera sarebbe altrettanto indicativo sapere se i problemi che le scuole si trovano ad affrontare fanno parte di quegli esiti attesi, e quindi tenuti sottocontrollo, o se dagli stessi non sono considerati tali, e quindi ignorati come si fa generalmente per ciò che è inutile o fastidioso. Nel primo caso, potrebbe essere di grande utilità e di incoraggiamento per tutti conoscere le strategie che i legislatori, o quant’altri responsabili delle politiche nazionali, intendono immediatamente proporre ad evitare che i problemi si trasformino in danni irreversibili. Ma nel secondo caso non ci resterebbero molte alternative se non soffrire per ciò che avvertiamo come indifferenza o mancanza di attenzione nei confronti delle provate difficoltà che la scuola oggi sta vivendo. Sempre che la percezione di sofferenza non sia un turbamento eccessivo solo di qualche osservatore troppo sensibile o semplicemente incapace di valorizzare adeguatamente tutti gli aspetti positivi che l’operazione sul dimensionamento ha comunque e naturalmente posto in essere.

Non so se augurarsi che la scuola italiana continui a sopravvivere disincantata ed immutabile grazie alla consueta "rassegnazione", che da sempre viene considerata la migliore "virtù" degli italiani. Ci auguriamo, di certo, per tutti noi, che non sia proprio la rassegnazione ad offrire agli attuali decisori i parametri giusti perché possano calibrarvi le future azioni di politica riformatrice.


1. Cfr. il comma 4 dell’art. 21 della legge 15 marzo del 1997, n. 59.

2. Il comma 5 dell’art. 3 del DPR n. 233 del 18 giugno 1998 recita: "I dirigenti competenti dell’amministrazione periferica della pubblica istruzione (strano nome per indicare i provveditori) predispongono la documentazione necessaria per la conferenza provinciale di organizzazione, con tutti gli opportuni elementi di informazione".

3. È pur vero che lo stesso comma 5 citato nella nota 2 prevede anche che i provveditori debbano "acquisire eventuali pareri e proposte dai consigli scolastici distrettuali e degli organi collegiali degli istituti d’istruzione interessati" perché siano trasmessi alle regione e agli stessi consigli provinciali e distrettuali competenti per territorio, ma sono altresì vere due considerazioni: la prima che il termine "eventuale" vanifica totalmente il senso della presenza tecnica nelle decisione dei politici, la seconda è che comunque i pareri (la storia ci insegna), quando non sono accompagnati da azioni e quando provengono da soggetti diversamente interessati, finiscono per non avere alcun valore reale.

4. Il comma 2 dell’art. 3 del DPR n. 233 del 18 giugno 1998 dice: "Entro il 31 ottobre 1998 il presidente della provincia (…) convoca la conferenza provinciale alla quale partecipano, oltre alla provincia, i comuni e le comunità montane; ad essa partecipano di diritto il dirigente competente dell’amministrazione periferica della pubblica istruzione il presidente del consiglio scolastico provinciale".

Si evince chiaramente la sproporzione numerica tra i rappresentanti degli Enti Locali e quelli dell’amministrazione scolastica. Se poi, come spesso capita, il presidente del CSP non è il rappresentante del mondo della scuola, la responsabilità delle scelte è tutta concentrata nella figura del provveditore, chiamato all’uopo "dirigente competente" che però non è provvisto di strumenti politici di garanzia.

5. Cfr. l’art. 1 del DPR n. 233 del 18 giugno 1998 (Le finalità).

6. Il comma 3 dell’art. 2 del DPR n. 233 del 18 giugno 1998 recita: "Nelle piccole isole, nelle comunità montane, nonché nelle aree geografiche contraddistinte da specificità etniche o linguistiche, gli indici di riferimento previsti dal comma 2 possono essere ridotti fino a 300 alunni per gli Istituti comprensivi (…)"

7. Il comma 1 dell’art. 2 del DPR n. 233 del 18 giugno 1998 dice: "…per acquisire o mantenere la personalità giuridica gli istituti di istruzione devono avere, di norma, una popolazione, consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra i 500 e 900 alunni…".

8. Il regolamento per il dimensionamento delle istituzioni scolastici e la questione della dirigenza scolastica sono stati di fatto gli unici elementi del mosaico "Riforma" arrivati in porto.