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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Integrare cosa

di Stefano Stefanel

 

La scuola italiana in generale e quella udinese in particolare stanno vivendo un rapporto molto complesso con i fenomeni dell’immigrazione e della scolarizzazione dei minori non italiani. Se in tutta Italia il fenomeno della scolarizzazione dei minori stranieri è vissuto come una sorta di grande emergenza, a Udine la cosa è complicata dall’inerzia del Comune e dalla caotica gestione dei Servizi sociali. Tutta la “missione” e la “visione” della scuola italiana però è stata scossa negli ultimi tempi sia dalle continue riforme, nessuna delle quali ha però dato esiti duraturi e misurabili, sia dalla travolgente trasformazione della società italiana, che ha nel suo rapporto con l’immigrazione uno degli elementi di maggiore problematicità. Come era stata abituata negli ultimi 100 anni la scuola italiana ha reagito a questi due fenomeni epocali con assoluta autoreferenzialità, anche se si trovava di fronte a rivolgimenti che avevano una valenza globale e che quindi non erano facilmente risolvibili nell’ambito delle ordinarie e scontate risposte scolastiche. La parola d’ordine degli ultimi dieci anni è stata “integrazione”, salvo constatare oggi che l’integrazione è stata molto parziale e in alcuni casi non c’è stata proprio e che oltre alle spinte verso l’integrazione la società ha sviluppato spinte altrettanto forti verso la disgregazione, la xenofobia, il razzismo.

 

COMINCIAMO DAL CALCIO

Il problema del calcio rende molto sottili le possibilità delle scuole nei confronti di molti alunni extracomunitari soprattutto africani. Qualche tempo fa è venuta da me la madre di un ragazzino ghanese che gioca in una squadra di Udine e mi ha chiesto di parlare con suo marito che vieta al figlio di fare i compiti perché vuole che nel tempo libero palleggi e giochi con la palla il più possibile. Ho chiamato l’uomo in ufficio per ricordargli i doveri di padre e di educatore e lui mi ha detto: “Mio figlio gioca bene a calcio, ma è pigro e non vuole allenarsi. Se fa i compiti si stanca e non si allena bene. Anche se studia e viene promosso lui al massimo potrà fare il manovale, il muratore o fare qualche lavoro poco pagato. Se sfonda nel calcio diventa ricco lui e diventiamo ricchi tutti noi. E’ una strada da tentare, perché la scuola italiana per un ghanese non fa niente. E per lavorare in nero o a pochi soldi c’è sempre tempo”. Qualche tempo fa mi spiegarono che in Africa quando arrivano le derrate alimentari delle Ong o della Croce Rossa i primi a mangiare sono gli adulti e gli ultimi i lattanti, che spesso muoiono. Davanti a una simile barbarie ho chiesto in base a quale logica ciò accadesse e mi è stato spiegato che un adulto può lavorare e sfamare con il suo lavoro 5-6 persone, mentre un lattante non sfama nessuno oltre a se stesso. Se è denutrito il padre muoiono in 6, se è denutrito il piccolo muore solo lui. Nel ragionamento sul calcio ho visto una logica del genere, che cancella il concetto di integrazione e abitua il soggetto a scegliere e a selezionare. Quella che mi ha esposto il genitore è una logica “africana” fatta propria anche da molte famiglie italiane, contro cui la scuola non sta opponendo ragioni veramente serie e comportamenti didattici ed educativi ineccepibili.

Un altro ragazzo di origine sudamericana ripete per la terza volta la prima media (è la prima volta che lo fa a Udine, perché le altre volte ha ripetuto nelle scuole di riferimento delle squadre in cui giocava). Il ragazzo fa un provino dietro l’altro e in due mesi è stato visionato da Manchester, Inter, Milan, Bayern e Napoli. E’ esuberante, maleducato, sbruffone, ma in fondo sempre un ragazzino. Nel suo caso la possibilità di diventare professionista e ricco è evidente e gli stimoli a comportarsi da studente normale pochi: qui si tratterebbe di avere strategie di coinvolgimento diverse da quelle tradizionali. Il manager della squadra in cui gioca gli ha detto in mia presenza: “Devi imparare l’italiano, altrimenti quando vai in conferenza stampa non sai cosa dire”. Probabilmente il suo destino sarà il professionismo calcistico e poi il reinserimento più o meno problematico in Italia o in Sudamerica verso i 35-40 anni, a meno che qualche grave incidente o qualche comportamento a rischio non lo tolgano di mezzo prima e lo consegnino alla categoria degli sbandati di talento.

Cosa dire a ragazzi così? Siamo certi che la favola della scuola che fa crescere e ti dà opportunità nella vita sia sostenibile? Se quei due studiano diventeranno parte dirigente della società o ne saranno comunque ai margini? Perché la carriera di medico è lodevole e quella di calciatore no? Ormai la società non ha riferimenti certi, ma le possibilità sono a disposizione per pochi e per poco tempo. E sempre più famiglie si accorgono di questo e trovano davanti a sé una scuola sorda agli echi sociali e decisa nell’autoincensarsi e nel difendere le proprie scelte didattiche, anche se perdenti.

 

CONOSCENZE ITALIANE E COMPETENZE EUROPEE

La scuola italiana è molto insofferente verso il concetto di competenze e di loro certificazione ritenendo che i voti siano il modo migliore per valutare gli alunni e il loro processo di apprendimento. Della nostra opinione se ne fanno un baffo l’Unione Europea e il Mercato Mondiale, ma questo non pare angosciarci più che tanto. Pensate voi però cosa può interessare ai cinesi se uno ha preso sei in storia o in italiano o in arte nella scuola italiana! Le competenze senza conoscenza sono nulla, le conoscenze senza competenze sono puro nozionismo da telequiz. Invece di cercare di integrare i due termini in un unico processo di apprendimento, noi italiani organizziamo azioni di resistenza su tutto ciò che è nuovo o che viene dall’Europa. L’Europa ci chiede certificazioni? Bene, noi facciamo valutazioni. L’Europa ci chiede competenze? Bene, noi ci occupiamo delle conoscenze. L’Europa ritiene una stupidaggine il valore legale del titolo di studio? Bene, noi manteniamo quel valore legale. L’Europa ci chiede di sapere cosa sanno realmente fare i nostri studenti? Bene, noi diamo voti dopo averli interrogati sul “programma”.

La divaricazione tra gli obiettivi dell’Europa e quelli del nostro sistema di istruzione hanno poi una ricaduta devastatrice sugli alunni stranieri che provengono da altri sistemi di istruzione e che hanno una sola certezza nella convergenza del proprio percorso didattico con quello italiano: essere messi nella classe precedente alla propria età. Benché, infatti, le Linee guida ministeriali sugli stranieri (del marzo 2007) dicano chiaramente che lo straniero va messo nella classe corrispondente alla sua età, le scuole italiane per lo più lo mettono nella classe precedente, creando immediatamente una bocciatura di fatto. Esiste una sorta di razzismo implicito nei docenti italiani che li fa credere di ottenere qualche risultato facendo ritardare allo straniero di un anno la sua uscita dalla scuola. Così poi gli anni di ritardo diventano spesso due, tre, quattro e abbiamo le scuole italiane piene di stranieri demotivati, stanchi, ignoranti e poco integrati.

In realtà la prima cosa che la scuola dovrebbe fare sarebbe quella di accertare le reali competenze dell’alunno straniero, che poi andrebbe inserito in un percorso personalizzato teso a sviluppare le sue potenzialità per favorire al massimo l’inserimento nella società italiana. Tutto questo non vuol dire integrazione, perché ormai i network stranieri nelle nostre città sono diventati il modo predominante con cui si organizzano le comunità non italiane,  ma vuol dire almeno dare possibilità sociali, diminuire il lavoro nero e cercare di limitare l’ingresso dei ragazzi stranieri nel circuito criminale.

Insegnare l’Italia e la sua storia e le sue tradizioni e la sua matematica (equazioni e non algoritmi) può essere giusto perché comunque noi abbiamo una nostra specificità, ma è complesso soprattutto con i ragazzi stranieri che non hanno i nostri riferimenti culturali e linguistici. Molte famiglie di alunni stranieri chiederebbero alle scuole solo tecnologia linguistica, essendo completamente disinteressati ai paradigmi centrali della nostra tradizione culturale. Diventa così una fatica inutile cercare l’integrazione quando il network familiare è fortissimo e tende a chiudere il ragazzo dentro riferimenti culturali che con l’Italia o il Friuli Venezia Giulia hanno poco o niente in comune.

La globalizzazione non piace a molti, ma i flussi migratori non sempre hanno connotazioni positive o accettate. Le invasioni barbariche furono un fenomeno al tempo stesso militare e migratorio e così le grandi battaglie dell’Occidente dalle Termopili a Kosovo Polje, da Lepanto a Vienna sono state anche un argine all’immigrazione laddove non c’erano più possibilità di integrazione. La stanchezza di una civiltà si vede anche nella sua indisponibilità a cambiare, ma anche nella sua relazione con l’altro e con le diversità.  Spesso infatti accade che la diversità richieda progetti e innovazioni, ma si trovi davanti a muri e a difese dell’esistente. Quando l’esistente non coincide con la sua previsione si assiste al corto circuito tra teoria e pratica e la fattualità spesso travolge chi non ha saputo attrezzarsi. Ma spesso è meglio credere che siamo capaci di integrare, di capire, di aiutare. Perché la realtà della nostra impotenza ci farebbe vedere il crollo imminente e i nostri difetti.


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