MANIFESTO IN DIFESA DELLA LINGUA ITALIANA

 

L'italiano del Novecento ha riacquistato in scioltezza, rapidità e trasparenza ciò che aveva perduto nell'Ottocento. Oggi, nel Duemila, può essere di nuovo una lingua fulminea e chiara, uno strumento di comunicazione e di espressione pronto a scendere indifferentemente sul versante scritto come su quello parlato senza camuffarsi. Infatti, ben attestato sul crinale, controlla ormai entrambi gli orizzonti. Non è più magazzino inerte, ricettacolo passivo di ferrivecchi, trovarobato letterario, ma principio attivo. E' di nuovo una spada, dopo essere stata a lungo un fodero.

Eliminate le callosità lessicali, le rotondità auliche e le opacità burocratiche che la soffocavano, la lingua ha conservato la spina dorsale della sintassi, che è il suo genio segreto e la sua vocazione profonda.

Questa vocazione riaffiora oggi in superficie ed è ben visibile sotto i detriti dell'uso corrente; né bastano a oscurarla la vulgata giornalistica, il dialetto politico, i gerghi professionali, i linguaggi simil-tecnici.

Hermann Broch ha scritto che dove degenera il linguaggio, là degenera la vita. Se dobbiamo credergli, in Italia la vita è salva, a dispetto della lunga e confusa transizione culturale e politica che stiamo attraversando.

Una lingua è viva quando non ricorre a prefabbricati verbali, propri o altrui, per inventare comunicazione quotidiana o creazione letteraria, ma attinge alla falda profonda delle proprie potenziali risorse espressive.

Queste risorse esistono, si sono conservate e rinnovate, e sono adesso alla portata di tutti. Eppure molte istituzioni pubbliche e private, non esclusa la scuola, non le attivano. Alitalia, le Ferrovie (si ponga attenzione alle scritte negli aeroporti e nelle stazioni) e le altre aziende di Stato, le banche e le agenzie di pubblicità dimenticano spesso che la comunicazione corrente non si fa con la comunicazione altrui, così come la letteratura non si fa con la letteratura; mentre anche i peggiori panettieri sanno che il pane non si fa con il pane, ma con la farina. Se sia buona o cattiva farina il materiale linguistico di chi parla o scrive oggi, è questione di scelta. E' però farina e non pane, a dispetto di televisioni e agenzie pubbliche. E dunque, almeno la vita è salva.

Usare il linguaggio per giudicare la lingua, parlare di parole, è un'impresa delicata. Come battere conio anziché moneta. Ma la cultura è spesso costretta a fare capriole su se stessa, azzardando esplorazioni in zone assai più ignote di quelle battute dalla psicanalisi.

Capire la coscienza è più difficile che capire l'inconscio. E poiché il linguaggio è a metà strada tra l'una e l'altro, chiunque, e in ogni momento, intenda difendere una lingua dai pericoli che la minacciano è costretto a affrontare entrambe le difficoltà.

L'italiano non è una lingua lessicalmente ricca. Ma compensa la sua relativa povertà di parole con una straordinaria ricchezza di costruzioni e movenze sintattiche, che possono rimpiazzare ottimamente sostantivi, verbi e aggettivi per garantire al discorso sfumature di significato e di espressione. Ha i suoi punti deboli, ma anche una straordinaria trasparenza e una singolare tendenza a degradare gli errori di pensiero a errori di lingua, segnalando i falli della mente attraverso le stesse regole che presiedono alla logica della sua espressione (ad esempio, non può cambiare a senso il soggetto di una frase o imbrogliare i tempi di un'azione).

Inoltre, si rifiuta giustamente di avvitarsi in quelle tortuose ripetizioni alle quali indulgono volentieri altre lingue (europee e non europee); e non per un banale gusto dell'eufonia, ma per la pretesa, bizzarra e generosa, di costringere il pensiero a non tornare mai sui propri passi e a sorvolare territori sempre nuovi e sconosciuti.

L'italiano non è una lingua infinitamente duttile come l'inglese, sensuale come il russo (dove un suono può essere analizzato con dieci parole diverse), tagliente e apodittica come il francese. E' rigido e può facilmente apparire inamidato e goffo nelle effusioni sentimentali, perché riflette una cultura sotto sotto scettica; ed è anche smorto e impreciso nella resa delle sensazioni, perché troppo ancorato al filtro dell'intelletto. Inoltre, è sospinto da una tradizione secolare verso il povero rimbombo ciceroniano dello stile cattedrattico.

Eppure, se usato bene, l'italiano può diventare espressivo, sensuale, limpido, semplice ed essenziale come nessun'altra lingua. Ed è usato bene quando è lineare, perché questo è il suo demone, il suo genio. Infatti è una lingua fredda, dura, lucida, consequenziale. Tra i suoi meriti può vantare anche una propensione naturale al giusto dosaggio tra astratto e concreto e una diffidenza, nascosta ma tenace, per le frane incontenibili che trascinano verso l'empireo delle idee artificiali. Alle quali si abbandona invece, orgiasticamente, il tedesco: lingua meritoria, ancora caldissima e omerica (e però senza parapetti verso l'indefinito), nella quale la creazione incessante di parole e di concetti consente tuttora, agli albori del XXI secolo, di battezzare le cose che esistono come le cose che non esistono, e di scrivere quasi quotidianamente l'Iliade e l'Odissea della mitografia concettuale, il grande epos moderno del pensiero burocratizzato o estaticamente meccanizzato.

Ma va ricordato che, per quanto vitale, nessuna lingua può resistere a lungo al disinteresse di chi la parla e la scrive; e in Italia, in questi anni, la disattenzione teorica per l'idioma nazionale è stata totale. Molti scrittori, che sono i depositari naturali della lingua, hanno preferito cercare espressività nei dialetti. Altri hanno atteso trepidanti l'arrivo del basic english. Nessuno, o quasi, ha difeso l'italiano, distinguendolo dai dialetti e dalla dilagante idolatria per tutto ciò che è globale o locale; anche se, in questi anni, un certo numero di autori ha usato una lingua bella e chiara, fornendo esempi diversissimi e magari opposti delle grandi possibilità e della straordinaria versatilità di quel demone che ci fa parlare e scrivere.

Minacciate dalla ripresa dei dialetti, dall'insorgenza dei gerghi corporativi e dall'avanzata del pidgin english, le grandi lingue dell'Europa si difendono come possono. E non solo la Francia, sempre sensibile alla continuità e alla vitalità della sua cultura, difende il francese; ma anche la Germania, assai più restia (per radicate e giustificate ragioni) a compromettersi con rivendicazioni identitarie, ha recentemente lanciato una grande campagna per la difesa del tedesco.

Sembra necessario , dunque, avviare anche in Italia un movimento di resistenza attiva contro l'inquinamento della lingua.

La quale non è minacciata da chi parla o scrive, ma da chi si augura la sua rapida estinzione per poter approdare, quanto prima, a un mondo globalizzato, dove la comunicazione corrente sia affidata ai dialetti e quella culturale al basic english. Da questo punto di vista, il purismo lessicale non è importante; sono utili i prestiti linguistici, possibili le contaminazioni efficaci, benvenute le innovazioni intelligenti: ma è vitale la difesa della sintassi, che è la struttura ossea di qualsiasi linguaggio.

Gli Aeroporti italiani e le banche che, per una campagna contro il fumo, non hanno trovato di meglio che spalmare parole italiane su un frasario inglese, inventando lo slogan: "Grazie per non fumare!" ("Thank you for not smoking!"), non sanno, forse, di aver creato un mostro. Si sono comportati, più o meno, come un biologo che pretendesse di stendere la pelle di una lepre sullo scheletro di un gatto per ottenere un animale al tempo stesso aggressivo e veloce. Ignorano probabilmente che ibridi di questo genere, come il pidgin english dilagante, possono ridurre in breve tempo culture sedimentate alla balbuzie puerile di una clinica per minorati.

Sempre che, sapendolo, non se lo augurino: in nome di una rapida unificazione del mondo sotto l'impero della new economy.

Contro questa unificazione autoritaria e impoverente, la lingua è un'arma.

 

da "Il Tempo" 6 giugno 2000