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Femminile e maschile nella relazione pedagogica

di

 

FRANCESCA VASSALLO

Da tanti anni lavoro con bambine e bambini, il mio rapporto con loro ha sempre avuto, come terreno di incontro, il gioco e le attività artistiche: mezzi di comunicazione, oltre che strumenti di conoscenza, occasioni di "apprendimento" non meno significative di quelle più direttamente scolastiche. Mi occupo di disagio infantile, di bambine e bambini che non riescono ad adattarsi a regole sociali e a schemi culturali che non rispettano il loro sentire, il loro modo "unico" di stare nel mondo. Il mio lavoro mi porta ad essere spesso in contatto con la scuola materna ed elementare, con le maestre, con le difficoltà che i bambini incontrano nei primi anni di scolarizzazione, con le preoccupazioni e le aspettative dei genitori.

La scuola nella vita delle bambine e dei bambini occupa un posto non marginale; rappresenta, rispetto alla casa, la sfera della socialità, del confronto con il mondo esterno, vissuti senza la copertura e il conforto di figure familiari. E’ il momento in cui la maturazione emotiva di un bambino e di una bambina viene messa alla prova perché sottoposta a sempre nuove e diverse sollecitazioni. La scuola richiede risposte immediate, prestazioni di varia natura, continui adattamenti, che non sempre i bambini e le bambine sono capaci di mettere in atto in maniera indolore.

I primi anni del percorso scolastico e le relazioni che la bambina e il bambino sperimentano al suo interno possono consolidare e arricchire la loro mente e la loro personalità, possono purtroppo anche rallentare o ostacolare il loro potenziale conoscitivo e creativo, ma sicuramente contribuiscono in maniera significativa alla formazione di una loro identità sessuata e di una cultura del maschile e del femminile che accompagnerà e segnerà la loro crescita.

Tutte le volte che mi interrogo su problemi relativi all’infanzia e all’educazione, come in occasione di questo incontro, cerco di mettermi nella prospettiva che ritengo essere la più corretta e la più onesta: poiché si tratta di bambine e bambini, persone non ancora capaci, come gli adulti, di ragionare su se stesse e di far valere i loro diritti, è necessario che qualcuno lo faccia per loro e non sulla base di un pensiero precostituito, ma semplicemente osservando e interpretando con attenzione e serietà i segnali che i bambini e le bambine inviano continuamente attraverso i loro slanci, i loro desideri, come pure attraverso i malesseri e i disagi che in vario modo manifestano.

Innanzitutto sento il bisogno di chiarire un punto, su cui, probabilmente non c’è una perfetta intesa con qualcuna di voi, ma tradirei il mio sentire di donna e di operatrice d’infanzia se non ne tenessi conto. Nelle relazioni pedagogiche di cui si fa esperienza nei primi anni di vita e nelle dinamiche ad esse connesse, non è sempre così immediato fare subito riferimento alla differenza di genere, alla bambina e al bambino nelle loro relazioni con il maschile e con il femminile: non è questo il primo aspetto che si evidenzia: c’è un impatto con la realtà esterna e con l’adulto che i bambini e le bambine sperimentano dal loro punto di vista infantile, che non è da intendersi come un genere indifferenziato e neutro, ma come un modo di vedere la realtà, diverso da quello degli adulti, per gli aspetti legati alla natura di una mente in formazione. L’adulto, maschio o femmina, il più delle volte agli occhi dei bambini e delle bambine si muove, agisce e comunica in modo assolutamente diverso dal loro modo infantile di essere e di comunicare e questa diversità di modi di sentire e di essere nel mondo, la diversità di linguaggi è ciò che, in molti casi, crea delle peculiarità relazionali, sia con gli educatori che con le educatrici d’infanzia.

Ogni caratterizzazione di genere nella relazione con i bambini, tanto più acquista una funzione e una risorsa pedagogica, quanto più tiene conto della differenza del mondo infantile, che è in continua evoluzione, rispetto ai modelli adulti già strutturati e consolidati. Non a caso gli educatori e le educatrici più capaci di entrare in una relazione sintonica con i bambini sono coloro che non hanno fatto dell’età adulta un traguardo raggiunto, ma sanno, come i bambini, continuare a mettersi in gioco, pronti a lasciare i propri schemi mentali, là dove un confronto autentico con la realtà lo richieda. Questa prima qualità pedagogica, probabilmente più congeniale all’esser donna, è quell’apertura alla vita, al nuovo, al cambiamento, che non ammette corazze e irrigidimenti, che dà respiro e fluidità al pensiero, che accoglie il diverso da sè senza preconcetti. Purtroppo, dobbiamo tristemente constatare che questa freschezza mentale, questa disponibilità a guardare con entusiasmo l’originalità e l’esuberanza infantile non sempre appartengono alle maestre di asilo o di scuola elementare. In un ciclo scolastico, quello della scuola primaria, dove da sempre l’insegnamento rimane quasi esclusivamente una prerogativa delle donne, si ripropongono spesso relazioni pedagogiche che mantengono intatti i modelli femminili e maschili tradizionali. Questo accade quando manca un’adeguata cultura dell’infanzia, (che dovrebbe supportare e orientare ogni progetto didattico), come pure un pensiero sul ruolo dell’emotività e sul senso materno, che, se affidato unicamente all’istinto, può compromettere la qualità di un’azione educativa, e quindi ogni principio di autorevolezza. Senza un lavoro personale su noi stesse, anche noi, donne-madri educatrici, non riusciamo a guardare senza resistenze e pregiudizi le bambine e i bambini con cui entriamo in relazione. Quando il mondo infantile costituisce per l’educatrice o l’educatore una realtà scomoda da cui difendersi o al contrario con cui identificarsi senza la necessaria consapevolezza delle differenze e delle peculiarità che lo riguardano, si è portati a riproporre certi modelli maschili e femminili. Un’osservazione delle bambine e dei bambini nei primi anni di scuola porta a rilevare che,da qualche tempo, sono proprio i maschi a vivere con maggior disagio la relazione con la maestra-donna. Se, infatti, oggi grazie al prezioso contributo del pensiero femminile, il meccanismo di solidarietà e di immedesimazione tra donna e bambina in molti casi contribuisce alla costruzione di buone relazioni educative e di una sano principio di autorità, al contrario, la mancanza di un rapporto sintonico delle maestre con il maschile, può, in certi casi, diventare un forte ostacolo alla comunicazione con il bambino, e compromettere il suo percorso scolastico.

Allora per considerare e garantire la differenza di genere, è necessario evidenziare le caratteristiche e i bisogni comuni ai bambini e alle bambine, attraverso una buona cultura dell’infanzia. Pensare il bambino significa per esempio riconoscere seriamente la sua sfera emotiva; quando questa viene definita dagli adulti e dalle adulte la "parte fragile" o il "lato femminile" del maschio, induce il bambino, fin da piccolissimo a negarla, a soffocarla, come se non gli appartenesse. Ovviamente, al contrario, le emozioni sono parte integrante anche della personalità dei maschi, come lo sono delle femmine, devono entrare a pieno titolo nello sviluppo della loro intelligenza, dare colore e qualità ai saperi che attraverseranno la loro formazione. Una maestra deve sapere mettere dentro, non solo nelle relazioni con alunni e alunne, ma anche nello specifico dei contenuti didattici, il potenziale emotivo maschile e femminile, su cui si possono costruire nuove culture.

Quello che accade però è che, quando da parte della donna c’è la capacità di accogliere le risorse emotive del bambino, questo si esprime tante volte attraverso atteggiamenti di ambigua identificazione che, nel bambino può essere fonte di confusione rispetto alla formazione di una soggettività sessuata, a differenza di quanto accade con le bambine, per le quali una corretta immedesimazione con la donna educatrice permette il consolidamento di una loro identità di genere.

Voglio dire che è necessario accogliere e valorizzare l’emotività maschile, ma sapendola riconoscere come diversa da quella della maestra-donna; tener conto cioè del modo più specificamente maschile di esprimere i sentimenti, che può avere una grande bellezza e intensità, pur assumendo toni e coloriture diverse da quello femminile.

Mi sono chiesta tante volte, nel mio contatto quotidiano con i problemi dell’infanzia, come mai siano i bambini più che le bambine, a mostrare, oggi, in varie forme, maggiori disagi psicologici, a ricorrere più facilmente a terapie di sostegno. Credo di potere rispondere che, mentre la bambine cominciano ormai a sentire, più che in passato, la presenza di una cultura della donna, che sostiene la loro crescita in modo più consapevole, i maschi, nell’età in cui invece cercano di costruire la loro identità, continuano ad avere modelli culturali maschili, rimasti purtroppo, ancora, per lo più invariati, rispetto al passato che perciò contrastano con un loro mondo interno di emozioni e di sentimenti, estremamente ricco e dinamico, ma di cui devono al più presto sbarazzarsi, non trovando chi sappia contenerlo e valorizzarlo.

L’aggressività e l’iperattività dei bambini nel periodo evolutivo non sono da guardare semplicisticamente come espressioni di una mascolinità in eccesso, ma come il prezzo doloroso, da pagare, da parte di tanti bambini, per mettere a tacere le parti più intime, più delicate che sentono vive, reali e belle dentro di sé, al pari delle bambine, ma che diventano estremamente ingombranti se non c’è chi le apprezza e li aiuta a gestirle. Questo fenomeno di omologazione dei bambini a degli stereotipi maschili esterni, incoraggiato dalla figura paterna, è, in molti casi, anche dovuto alla mancanza di un pensiero femminile sui maschi, all’assenza di maestre che sappiano colmare quel vuoto di auto coscienza, tipicamente maschile, che sappiano farsi carico del "l’altra differenza", riconoscendo e valorizzando la specifica affettività negata o ferita dei bambini.

Valorizzare la diversità dell’altro, oltre ad essere, a mio parere, il naturale completamento di una cultura della differenza, è un compito tutto femminile da cui può partire il vero processo pedagogico di trasformazione nella relazione tra uomo e donna. Fino a quando ci saranno madri, oltre che padri spaventati delle parti," fragili" dei figli maschi, madri, oltre che padri che, "contano" sulla loro mascolinità, o che confondono la loro propria fragilità con quella del figlio, continueranno ad esserci bambini che, per non deludere le aspettative materne oltre che paterne, si mostreranno forti senza esserlo, destinati ad usare la violenza per coprire debolezze e insicurezze mai elaborate, futuri adulti costretti ad assumere il "pensiero forte" e la logica del potere per tenere a bada ciò che da bambini era fonte di disagio interno.

Un rapporto educativo ha sempre alle spalle delle relazioni paterne e materne, un modo di vivere la dipendenza e l’autonomia rispetto a delle figure genitoriali. Una sana autorità si può costruire solo se l’educatore/educatrice ha fatto, in qualche modo, chiarezza sui propri vissuti di figlo/figlia, madre/padre e considera serenamente i bisogni e le risorse legate all’infanzia. E’ su questa base che si può costruire una autorità e una didattica, nei confronti delle bambine e dei bambini, che permette di far circolare saperi liberi e liberanti; che rende possibile ai bambini e alle bambine di sperimentare e manifestare le proprie emozioni con la sicurezza di non perdersi e di non restare prigionieri nella relazione. Senza questi presupposti il percorso scolastico viene vissuto fin dai primi anni come una fatica, un compito da assolvere per "dovere" dove le individualità si appiattiscono e le differenze non possono esprimersi liberamente.

C’è un altro elemento che, a mio parere, dà autorevolezza alle figure di riferimento in ogni relazione pedagogica e che nell’età infantile è una condizione quasi indispensabile per un apprendimento motivato. Si tratta di quello spirito di "leggerezza", che pervade il rapporto di autorità, senza il quale il bambino e la bambina non riescono a vivere con impegno e passione la scuola. Chiamiamolo anche spirito ludico, qualità che non mi sento di attribuire unicamente alla donna ma che appartiene ad ogni adulto e ad ogni adulta che sanno prendere quella giusta distanza dalle cose "serie" della vita, senza banalizzarle, che sanno che i saperi non sono sistemi chiusi e rigidi, ma vie che, tanto più tolleranti e creative sono, tanto più sono vere e solide. Leggerezza è la capacità di creare quello spazio tra sé e il bambino o la bambina che è il terreno del "gioco", spazio in cui le bambine e i bambini possono sperimentarsi, provare, sbagliare, simulare, nel tempo in cui costruiscono la loro personalità e le loro conoscenze. Spazio che permette di crescere grazie ad una autorità a cui affidarsi, spazio che dà respiro alla relazione e impedisce di costruire solo su questa le proprie sicurezze, perché altre spinte muovono una mente libera verso l’incontro con altre realtà..

Allora, prendere con troppa "serietà" il proprio ruolo di educatore ed educatrice, avere dei progetti troppo rigidi, restare ancorati alle proprie convinzioni, anche quando le cose ti sollecitano verso altre direzioni, non guardare il bambino o la bambina che hai davanti con la sua personalità, porta inevitabilmente ad un regime didattico autoritario, al mantenimento di un sistema scolastico, basato sul potere e sulla paura.

Francesca Vassallo

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