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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Che tempo che (non) fa

La buriana

Un grande vento di tempesta si è abbattuto questa estate sulla nostra scuola. Una buriana che, in brevissimo tempo, per esattezza nove minuti e mezzo con il cronometro di Tremonti, ha spazzato via, o per lo meno si illude di farlo, decenni di lavoro, studi, ricerche, sperimentazioni che il mondo della scuola ha svolto, spesso con fatica, contraddizioni, disomogeneità territoriali, di ordine di scuola. La stessa nozione di “scuola italiana” solo approssimativamente rende conto di diversità spesso profonde tra una scuola e un’altra. Anche sub categorie territoriali come scuola del nord, del centro, del sud sono estremamente approssimative, così come lo sono quelle relative agli ordini di scuola come primaria, secondaria di 1° e 2°. Non parliamo poi delle statistiche che, da cosa seria quali sono, a condizione che vengano usate con discrezione scientifica, utilizzate al contrario come strumento di certezza assoluta, definitiva, inoppugnabile finiscono per ottundere, recintare, chiudere, giudicare dove, al contrario, dovrebbero invece dare avvio ed aprire alla conoscenza, spingendo  verso il discernimento e la distinzione, anziché verso la facile, superficiale e rozza sintesi, finendo inesorabilmente con il rievocare la vecchia, e mai passata di moda, storiella del “pollo a testa”  per gli Italiani.

 

Ben diversamente si poteva fare

Così è, e non poteva essere diversamente? Certo che poteva, a condizione che ci fosse stata la volontà di usare un approccio diverso da quello per cui si vuol colpire la malattia uccidendo l’ammalato, per risolvere l’inefficienza di qualcuno si considera tutti inefficienti, per colpire il fannullone si considerano tutti fannulloni, per disincentivare gli sprechi si considera tutto uno spreco. Mandando un segnale incomprensibile, e comunque demotivante, a tutte quelle realtà e a tutti coloro che in questi anni, nonostante le politiche poco accorte, hanno portato avanti la ricerca, per l’efficienza, l’efficacia, la qualità della nostra scuola. Dal lavoro e dai saperi di costoro non si può prescindere se si vuole davvero fare avanzare tutto il sistema di istruzione e formazione. E partire da questi vuol prima di tutto muovere dalla storia di quelle che ormai tutti chiamano “buone pratiche”, che sono anche buone teorie psico-pedagogiche e metodologico-didattiche, con le quali la nostra scuola ha tenuto il passo dei sistemi formativi degli altri Paesi avanzati, con qualche punta di eccellenza, come è nel caso della scuola dell’infanzia e primaria.

Il decisore politico non può appiattire tutto e tutti, né parlare, legiferare, giustificare scelte politiche dissennate screditando, isolando, ridicolizzando, esponendo al pubblico ludibrio e alla esecuzione mediatica l’intera scuola, usando come arma impropria il giustizialismo  dei coreuti e delle mosche cocchiere sempre pronti a cantare il peana del divo condottiero, ancorché ignoranti della materia di cui discettano nei salotti televisivi dei maggiordomi del potere, che fanno a gara nell’accaparrarsi la loro illustre presenza.

 

Danni incalcolabili

I danni che arrecherà questa buriana, ma forse è meglio considerarla tzunami, sono incalcolabili oggi, e via via che andremo avanti si aggraveranno in modo esponenziale. Le proteste, le critiche sono arrivate da tutte le parti, ma quello che è ancora più significativo è che queste sono quasi unanimi dal mondo della scienza e della scuola; proprio quel mondo che queste sciagurate misure vogliono cambiare per fare acquisire, dicono, razionalità, efficienza, qualità, merito, che poi sarebbero cose serie di cui e su cui discutere, se non fossero usate a puro scopo propagandistico, o non fossero come gli idoli di cui parla Bacone, o più semplicemente e banalmente la classica foglia di fico con cui coprire la vergogna dei tagli.

L’operazione condotta dal governo consiste esclusivamente in risorse sottratte a scuola e università in forma di numeri e quantità, tant’è che l’arma letale messa in campo per l’esecuzione è la legge finanziaria. Il resto (grembiulino, voto numerico, educazione civica, condotta) è coreografia per sceneggiati girati nei salotti televisivi, oppure per l’amarcord del maestro unico, che è poi la vera tragedia. I cambiamenti che ci saranno deriveranno dalla necessità di perseguire gli obiettivi di spesa fissati dalla legge finanziaria, e il parere della V Commissione Bilancio e Tesoro, sia pure contro il parere della VII Commissione Cultura della Camera, che aveva in parte attenuata la portata devastante dello Schema di Piano Programmatico del ministro, lo testimonia in termini espliciti.

Tra i danni numerosi sono stati abbondantemente e puntualmente denunciati quelli occupazionali (in controtendenza agli interventi necessitati dalla crisi), sociali (riduzione dell’offerta formativa), costituzionali (meno diritto allo studio), organizzativi (modelli vecchi e superati come il maestro unico e il sistema duale). Ma quelli che, al contrario di quanto affermato e garantito dal governo, colpiscono al cuore la stessa possibilità della nostra scuola di avanzare in livelli di qualità, facendola irrimediabilmente arretrare, riguardano il tempo scuola.

 

Operazione tempo

Il tempo scuola, certamente, preso in termini quantitativi, di per sé non è garanzia di successo formativo. Tuttavia, se avere più tempo scuola non offre certezze da questo punto di vista, certo invece, è che la diminuzione del tempo scuola, non solo non garantisce alcunché, anzi pregiudica alla base le stesse possibilità e condizioni che sono necessarie per un miglioramento qualitativo del sistema di insegnamento-apprendimento.

C’è tempo e tempo. In questa sede non voglio prendere in considerazione il “tempo scuola” come tempo di permanenza negli edifici scolastici, né il tempo del curricolo. Voglio porre l’accento sul tempo dell’apprendere e, di conseguenza, dell’insegnare. Proprio quel tempo, penalizzato dal governo in vari modi e nei vari ordini di scuola,  che costituisce una variabile pedagogica fondamentale e discriminante del modello di scuola che si vuole realizzare.

Leggendo decreti, leggi, e soprattutto lo Schema di Piano Programmatico due concetti attraversano trasversalmente la materia e connotano, a mio avviso, il modo in cui il decisore politico considera il tempo dell’apprendere: razionalizzazione ed essenzializzazione.

 

La razionalizzazione

La razionalizzazione è un concetto tipicamente aziendalista, che, detto in termini neutrali, riguarda l’organizzazione di un’azienda, di un ente, di un processo produttivo o distributivo, di un servizio o di un ufficio secondo criteri di funzionalità, praticità, efficienza e redditività, attraverso il calcolo obiettivo dei fattori economici o socio–politici e dei mezzi necessari per i risultati che si vogliono ottenere (Dizionario De Mauro).

Tra diversi modelli di razionalizzazione possibili per un’azienda ci sono quelli classici e quantitativi che puntano all’aumento della redditività attraverso la diminuzione delle ore lavorate e quindi degli addetti, parte dei quali va fuori licenziata o in cassa integrazione, mentre per quelli che restano si intensifica lo sfruttamento attraverso il taglio dei tempi di lavoro. Poi ci sono modelli che perseguono l’aumento della redditività operando sulla trasformazione qualitativa del processo di produzione, facendo leva sulla riqualificazione del personale e su tempi di lavoro di più alto livello, gratificanti per l’azienda, che cresce sul mercato, e per il lavoratore, che si specializza sempre più e si rafforza nelle motivazioni professionali.

Mettiamo che fossi disposto, con molta prudenza e in modo comunque prettamente figurale, ad accettare la razionalizzazione come linea guida per l’organizzazione del sistema scolastico nel suo insieme di ente, opterei certamente per il secondo modello, criticando il primo che mi sembra molto più vicino a ciò che sta facendo il governo con la legge finanziaria. Parlo di legge finanziaria senza nutrire eccesive speranze  nei regolamenti attuativi, i quali non possono essere altro che una semiautomatica conseguenza della stessa, e che comunque non potranno stravolgere la sostanza dei tagli selvaggi e indiscriminati già passati.

 

Che c’entra il tempo dell’apprendimento

Ma che c’entra il tempo dell’apprendimento con tutto ciò. Quello dell’apprendimento non è il tempo del “produrre”, ma del capire, conoscere, concettualizzare, scoprire e scoprirsi, giocare, comunicare, elaborare e ri-elaborare, pensare e pensarsi mentre ci si pensa (metacognizione), si lavora, si studia (metodo), riflettere, interpretare, costruirsi come persona e essere sociale, rispetto a se stesso, agli altri, al mondo. Un tempo che oltre la logica e la concentrazione, preveda anche la distrazione, la divergenza, l’analogico, la creatività; oltre il compito e la consegna, preveda anche l’interesse, la motivazione, la gioia del farcela e del farcela insieme, non contro gli altri.

 

L’essenzializzazione

Più difficile è il discorso per ciò che concerne il concetto di “essenzializzazione” molto usato (e abusato) nello Schema di Piano Programmatico. Si parla di  essenzializzazione dell’intero quadro normativo (ridurre il numero delle leggi e lasciarne poche e semplici), essenzializzazione dei piani di studio e dei curricoli (ridurne il numero), essenzializzazione dei carichi orario (riduzione delle ore di lezione). Attraverso questo concetto filtra un significato di tempo dell’apprendimento puramente quantitativo, e niente si dice a proposito di chi e come stabilisce cosa è da ritenersi “essenziale”. Per dirla più chiaramente, lo stabilisce il decisore politico autocraticamente, oppure lo si fa scaturire da un processo di costruzione collegiale e condivisa da parte della comunità scolastica, scientifica e della ricerca, dell’associazionismo professionale, sindacale ecc., per poi recepirlo in norme e regolamenti organici?

Altro è il significato dell’essenzializzazione in campo pedagogico, altro ancora, e non certamente positivo, è in quello antropologico culturale; ma questa è un’altra storia che non appartiene né alla semiotica né all’ermeneutica dei documenti ministeriali.

 

Che c’entra il tempo dell’apprendimento

Anche qui, tuttavia, c’è da chiedersi: che c’entra il tempo dell’apprendimento con tutto ciò? Quello dell’apprendimento non è un tempo fast, come la finanziaria approvata in 9 minuti e mezzo o come le misure anticrisi approvate in 10 minuti (fallito il guinness dei primati per poco!), ma slow; non è superficiale, ma profondo; non è congestionato, ma disteso e tranquillo; non nasce da bisogni eterodecisi, eterodiretti, ma auto decisi e auto diretti; non trova giustificazioni e ragioni all’esterno, ma all’interno; spesso non è “utile”, ma inutile e pur tuttavia necessario; non è lineare e uniforme, ma circolare e irregolare; non è solido geometrico, ma liquido informe; non è mai finale definitivo, ma sempre processuale, approssimativo, in fieri; non deve essere immediatamente organizzato e agito, ma prima di tutto ascoltato e armonizzato con i tempi degli altri.

 

Il tempo della didattica

Il tempo dell’apprendimento non è un contenitore neutro in cui ci si può mettere di tutto di più, o di meno, per avere garanzie di efficacia e qualità.  Esso ha un limite “fisico” che dipende dalle attività, dai metodi, dalle didattiche compatibili, o meno, e rispettose, o meno, delle forme e dei modi in cui si vuol perseguire l’apprendimento.

Se si concepisce l’apprendimento come memorizzazione di nozioni e informazioni trasmesse dal docente e recepite dai libri (come in larga parte è ancora oggi nella scuola secondaria, e spesso non per sua colpa) allora va bene il modello della lezione frontale (spiegazione con appunti, compiti a casa, verifica orale-scritta, voto). I tempi possono essere ridotti, come fa il governo con i suoi provvedimenti e trasformati in “spezzatini di attimi” 1) . Per scalare posti, poi, nelle classifiche e graduatorie internazionali basterà addestrare con più puntualità alla risoluzione di test e questionari, il ministro di turno farà più bella figura per la “sua” scuola, ma le conoscenze e le competenze dei ragazzi resteranno quelle di prima 2). Abbiamo razionalizzato ed essenzializzato quanto basta.

Ma se vogliamo che a) tutti, nessuno escluso, apprendano con i propri stili cognitivi valorizzando al massimo le proprie capacità e tendenze; b) che gli apprendimenti siano significativi, concettualizzati e strutturati nella memoria lunga; c) che le conoscenze diano luogo alle competenze; d) che il cognitivo sia funzionale ed armonico con comportamenti civilmente e socialmente virtuosi (è su questo fronte che si combatte il bullismo, non col voto di condotta); e) che gli alunni abbiano la possibilità di apprendere ad apprendere, allora dobbiamo guardare alle didattiche delle cosiddette “buone pratiche” che sono frutto di studio, ricerca  sperimentazione, saperi e competenze sedimentate nel corso di molti anni.

Prendendole in considerazione, analizzandole cosa scopriremo? Diversi sono gli approcci, le teorie di riferimento, le metodiche, ma una cosa esse hanno in comune, abbisognano tutte di tempi distesi, oltre l’unità oraria e frazione di essa, di tempi compatibili con i ritmi e gli stili di apprendimento di ciascuno affinché a tutti sia data l’opportunità di apprendere, perché il tempo impiegato per apprendere bene non è mai sprecato e costituisce un valore individuale e sociale che mille finanziarie non saranno mai in grado di stimare e valutare.

In concreto penso alle pratiche didattiche che si ispirano alla teoria delle intelligenze multiple, all’apprendimento per concetti e mappe concettuali, al cooperative learning, alla didattica meta cognitiva, a quella conversazionale, laboratoriale,  per ricerca ecc. Insomma tutte le didattiche che non sono centrate su modelli 3) del “prodotto”, ma su quelli del “processo” e dell’ “oggetto mediatore”, hanno bisogno di un tempo che sia quello dei processi mentali, psicologici, cognitivi degli allievi, non del docente, né del programma, meno che mai della politica.

 

Tagli di fine stagione

Il problema della nostra scuola non consiste nel fatto che ha troppo tempo a disposizione, un lusso che non possiamo concederci, ma in come utilizzarlo, riempirlo. Anche il “tempo pieno” non va visto come servizio di assistenza e parcheggio sociale, ma come diversificazione di opportunità e di progetto didattico, altrimenti fa bene il governo a considerarlo sinonimo di doposcuola per le famiglie povere e disgraziate, gentile omaggio del buon cuore e della pia carità del Presidente del Consiglio, che, come tutti sanno, è molto sensibile ai problemi della povera gente. La lotta per la difesa e diffusione del tempo pieno, pertanto, non può essere disgiunta dall’impegno per una sua riqualificazione e riallineamento al progetto originario, tenuto conto delle condizioni storiche attuali.

Il governo sostiene che i suoi tagli vogliono riformare la scuola, farla diventare più seria, efficace, produttrice di merito, ma non si accorge (non vuole) che quando taglia il tempo scuola in realtà non lo sottrae alla “brutta scuola”, che tale era prima e peggio resta dopo, ma a quella delle “buone pratiche”. Queste, pertanto, non solo andranno in forte sofferenza, ma vedranno azzerata la possibilità di una loro contaminazione, generalizzazione e diffusione in tutto il sistema formativo, col risultato di un suo appiattimento ai livelli più bassi. Se si colpiscono le punte più avanzate e virtuose del nostro sistema, come pensa il governo di rendere migliore la nostra scuola? Aver accreditato presso l’opinione pubblica la certezza che il miglioramento della scuola sia conseguenza automatica che deriva dai tagli è un tragico errore di cui ci si renderà conto molto presto, con l’attuazione dei provvedimenti.

 

Per concludere

La direzione della buriana che si è abbattuta sulla scuola è partita dai tempi della politica, che hanno deciso di condizionare a cascata i tempi del curricolo, dell’insegnamento, gravando infine come un macigno sui tempi dell’apprendimento. Se si vuole una buona scuola, moderna, avanzata, capace di raccogliere la sfida dei tempi per realizzare il dettato costituzionale, una scuola ricca di varietà, opportunità, competenze, bisognerà avere il coraggio di invertire la direzione di marcia e procedere dai tempi dell’apprendimento degli allievi, tutti nessuno escluso, sapendo bene che questi connotano quantitativamente e qualitativamente i loro bisogni formativi. Da, e in relazione a questi qualificare forme e tempi della didattica e sulla base di ciò, ma non solo, procedere ad una ridefinizione dei curricoli. Solo in un processo così immaginato, potendo capire e scegliere cosa serve e cosa è accessorio, o addirittura inutile, si potrà “razionalizzare” ed “essenzializzare”, sempre tenendo presente e viva la consapevolezza dell’importanza strategica del tempo dell’apprendimento come variabile pedagogica chiave per tutto il sistema.

 

Cosimo De Nitto


1) La prima che ha questa felice espressione per indicare il bisogno di un tempo scuola lento non frenetico è stata Claudia Fanti in un articolo intitolato proprio così “Uno spezzatino di attimi” dell’11 gennaio 2003. Tutti gli articoli prodotti negli anni dall’autrice sono antologizzati su Educazione&Scuola in Claudia Fanti e in http://www.funzioniobiettivo.it/Claudia_Fanti/index.htm

2) Rimando alla simpatica lettura dell’articolo su La Stampa del 28-11-2008 “I giovani inglesi più asini che mai” Le ragioni di questo declino nella preparazione culturale sono tante e alcune hanno strettamente a che fare con il sistema di istruzione anglosassone, basato sui test e sulla valutazione degli insegnanti in base ai risultati ottenuti dagli allievi. I docenti tendono ad insegnare ai ragazzi lo stretto necessario a superare il questionario, perdendo di vista il quadro complessivo.” E’ questo il modello cui aspira il governo? E’ ora di finirla con l’esterofilia strumentale.

3) Utilizzo la classificazione dei differenti modelli didattici operata da Elio Damiano in "Modelli didattici e lavoro in aula", Nuova secondaria, settembre 1998 ,n°1


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